Il villaggio globale del terrore è nel Nangarhar e ci sono molte spose dello Stato islamico

Cecilia Sala

Dal 2017 arrivano stranieri e denaro. Una donna uzbeka ha raccontato com’è strutturata la vita qui, tra famiglie, reclutamento e attacchi

Esiste un corridoio del jihad che va dalla Siria all’Afghanistan. Quando le cose hanno iniziato a mettersi male per lo Stato islamico del Levante, c’è stato uno spostamento verso la provincia del Nangarhar, nell’Afghanistan orientale. Qui, le prime ad arrivare sono state le donne. Era il 2017 quando le spose dello Stato islamico si sono mosse attraverso i confini portando con loro una montagna di soldi che andava posta al riparo dall’avanzata degli eserciti locali e dai bombardamenti della coalizione internazionale. Sapevano di dover fare in fretta e che di quei fondi il califfato avrebbe avuto bisogno in futuro. Non era stato necessario dire loro che il jihad internazionale ha una costituzione pensata per la duplicazione e strutturata affinché trovi sempre il modo di rigenerarsi. 


I loro uomini (o i loro carcerieri, a seconda dei casi), quelli che sono sopravvissuti, le hanno raggiunte più tardi e adesso abitano in queste montagne come nei villaggi rurali, nelle gole intorno al capoluogo Jalalabad, condividendo gli spazi in cui si è da tempo stanziata anche al Qaida. Oggi non c’è sempre una concorrenza diretta, dal momento che l’ex regina indiscussa del terrore – fondata da Osama bin Laden a Peshawar in Pakistan, a meno di due ore di macchina da qui – si è in un certo senso imborghesita e talvolta predilige il commercio al martirio, i guadagni facili attraverso traffici di ogni genere ai rapimenti e agli attentati suicidi. In particolare è accaduto qui, dove il rapporto storico e privilegiato con la rete Haqqani – che vanta tre ministeri nel nuovo governo talebano, tra cui quello dell’Interno – le consente una certa libertà d’azione

 

Nangarhar, il corridoio del jihad tra Siria e Afghanistan


A collocarsi tra la rete Haqqani e al Qaida, con nuove parole di disordine, c’è infatti l’Iskp – lo Stato islamico della provincia afghana del Khorasan. Nella corsa alla purezza teologica e politica adesso può vantarsi di essere l’unica organizzazione a non aver accettato alcun compromesso. E’ sulla poca iniziativa di al Qaida e sulla “svolta diplomatica” talebana che i miliziani dell’Iskp faranno leva per reclutare nuovi affiliati e potenziali martiri. Ogni novità al potere comporta dei vincitori e dei vinti, degli integrati e degli esclusi, degli opportunisti e degli emarginati – è una legge universale. Se l’Iskp ha già attinto ai talebani delusi, lo farà ancora. L’obiettivo è far tornare a correre l’autostrada del jihad, raccogliendo consensi dentro e ma anche fuori dai confini nazionali. Se la transumanza che dall’Iraq e soprattutto dalla Siria ha raggiunto queste zone a partire dal 2017 era nota, non si conosce la portata del flusso di persone e di denaro. 


C’è una donna che può aggiunge dettagli utili a inquadrare la vicenda. E’ uzbeka e ha vissuto per otto anni in Nangharar nella rete jihadista, tra gli uomini e le donne dell’Iskp. La ricercatrice di Harvard Vera Mironova – esperta di terrorismo islamico e in particolare di prigioniere dello Stato islamico – l’ha scovata all’interno di un programma di recupero per persone radicalizzate creato in Uzbekistan di cui la ragazza fa parte dall’estate del 2019. E’ lei a raccontare l’Iskp come un “villaggio globale” del terrorismo che da diversi anni ha sede in Afghanistan. In Nangarhar, dice di aver convissuto con persone provenienti da tutto il mondo: francesi, tedeschi, canadesi, russi e cinesi uiguri arrivati dalla regione dello Xinjiang che confina per un breve lembo di terra con il nord-est dell’Afghanistan. Stando alla sua descrizione, il network internazionale è organizzato in famiglie con bambini, reali o fittizie ma così costituite per confondersi meglio con la popolazione locale e apparire meno sospetti. Al comando ci sono però i combattenti afghani, tagiki e uzbeki, cioè quelli che conoscono meglio il territorio e hanno più esperienza sul campo. Sono loro ad occuparsi dell’addestramento, della propaganda finalizzata al reclutamento e soprattutto sono loro a decidere le operazioni sul campo. Come quella della scorsa primavera in cui un attentatore suicida si è fatto esplodere al funerale di un comandante della polizia locale del Nangarhar, uccidendo venticinque persone mentre facevano la fila davanti al corpo per la preghiera finale. O come quello al reparto maternità dell’ospedale di Kabul, nel quartiere hazara a maggioranza sciita, con cento posti per i neonati gestiti da Medici senza frontiere. Ci sono stati sedici morti. Ma il colpo di cui il gruppo va più fiero è l’attentato all’aeroporto di Kabul durante gli ultimi giorni delle evacuazioni, quasi duecento vittime tra cui i tredici militari statunitensi. 


Nessuno ha ancora chiara quale sarà la strategia terroristica dell’Iskp. Proseguiranno il brigantaggio e le estorsioni nei villaggi, forse la fase è quella del ritiro strategico che prepara la guerriglia. Gli servono soldi, uomini, e bersagli precisi, prima di lanciare qualsiasi operazione nel nuovo Emirato islamico – quello che è certo è che adesso saranno le forze speciali talebane addestrate dal clan degli Haqqani a contrastarlo.

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