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11 settembre, vent'anni dopo

La caccia a Osama fu l’ultima guerra giusta benedetta dalla Chiesa

Matteo Matzuzzi

 Il Vaticano capì l’attacco in Afghanistan. La Frattura fu sul dossier iracheno. Papa Francesco ha chiuso il cerchio

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Giovanni Paolo II rimase quasi senza parole, sconvolto davanti all’orrore di quanto l’allora portavoce Joaquín Navarro-Valls gli stava dicendo al telefono. Guardò per poco le immagini che arrivavano da New York, preferendo ritirarsi subito nella cappellina di Castel Gandolfo a pregare per le vittime. Pochi giorni dopo, Karol Wojtyla avrebbe visitato il Kazakhstan, invocando più dialogo e meno armi, ben consapevole che comunque di lì a poco sarebbe scattata la reazione alleata contro l’Afghanistan, santuario qaidista fin da quando gli “studenti di Dio” avevano dato ospitalità a Osama bin Laden e ai suoi fedeli sulle montagne al confine con il Pakistan.

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Giovanni Paolo II rimase quasi senza parole, sconvolto davanti all’orrore di quanto l’allora portavoce Joaquín Navarro-Valls gli stava dicendo al telefono. Guardò per poco le immagini che arrivavano da New York, preferendo ritirarsi subito nella cappellina di Castel Gandolfo a pregare per le vittime. Pochi giorni dopo, Karol Wojtyla avrebbe visitato il Kazakhstan, invocando più dialogo e meno armi, ben consapevole che comunque di lì a poco sarebbe scattata la reazione alleata contro l’Afghanistan, santuario qaidista fin da quando gli “studenti di Dio” avevano dato ospitalità a Osama bin Laden e ai suoi fedeli sulle montagne al confine con il Pakistan.

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Lo spettro di una guerra lunga era reale, tale da far impallidire il ricordo di quanto accaduto nei Balcani solo pochi anni prima. Eppure, da Oltretevere non s’alzarono muri nei confronti dell’Amministrazione americana. Si comprendeva la reazione al primo attentato subìto dagli Stati Uniti in casa propria. E si sapeva, soprattutto, che l’Afghanistan era stato ridotto a base operativa del terrorismo che usava la religione per giustificare stragi e sottomissioni. Rientrava, l’operazione voluta da Bush jr, Cheney e Rumsfeld, nel quadro di quella che più tardi sarà definita da Benedetto XVI come “responsabilità di proteggere” un popolo inerme dalle vessazioni di chi lo amministrava. I talebani avevano vietato tutto, dalla musica alle fotografie. Avevano bombardato i Buddha di Bamiyan, praticavano la lapidazione e ogni altra forma di tortura inimmaginabile agli albori del Ventesimo secolo. Il 16 gennaio del 1993, davanti al massacro slavo, intervenendo davanti al Corpo diplomatico, Giovanni Paolo II disse che “esistono interessi che trascendono gli stati: sono gli interessi della persona umana, i suoi diritti. [...] a tal punto che un nuovo concetto si è imposto in questi ultimi mesi, quello di “ingerenza umanitaria”. Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali siano stati messi in atto, e che, nonostante questo, delle popolazioni siano sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli stati non hanno più il “diritto all’indifferenza”. Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore, se tutti gli altri mezzi si sono rivelati inefficaci. I princìpi della sovranità degli stati e della non-ingerenza nei loro affari interni – che conservano tutto il loro valore – non possono tuttavia costituire un paravento dietro il quale si possa torturare e assassinare”.

La vera frattura si ebbe più tardi, con la crisi irachena del 2003. E’ su questo dossier che si registrò la divisione netta tra Washington e la Santa Sede. Non tanto per l’appello disperato a braccio dell’anziano Giovanni Paolo II, che al termine di un Angelus invocò ancora il celebre “mai più la guerra”. Quanto per l’ostilità aperta che gli Stati Uniti avevano mostrato nei confronti delle mosse diplomatiche del Vaticano per scongiurare un intervento armato sul suolo iracheno. Lo ricordò bene Ferdinando Filoni, oggi cardinale ma all’epoca unico ambasciatore straniero a non lasciare Baghdad mentre i caccia alleati bombardavano il paese. Il Papa spedì Pio Laghi a Washington e Roger Etchegaray da Saddam. I risultati furono nulli: “La missione del cardinale Laghi praticamente fu osteggiata e non ottenne nulla. Etchegaray vide Saddam e gli affidò un messaggio, disse che era disposto a trattare ma senza umiliazioni, che potevano chiedere e ne avrebbero discusso”. Fu una rottura profonda anche con quel mondo neocon che fin dall’inizio degli anni Novanta aveva teorizzato la possibilità di adattare al cattolicesimo universale una sorta di American way of life. Richard Neuhaus, esponente di punta del gruppo, non esitò a esprimere sconcerto per la posizione del Papa: “Per quanto riguarda la chiarezza morale sulla guerra e la pace, si deve ammettere senza reticenze che questo non è stato il momento migliore di questo pontificato”. Più che di sofferenza, Neuhaus disse che era una “questione di delusione e di imbarazzo”. 

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Sullo sfondo, il sempiterno tema della guerra giusta. Se in occasione del conflitto seguito alla dissoluzione della Yugoslavia fu addirittura il segretario di stato Angelo Sodano a parlare di “dovere e diritto di ingerenza per disarmare chi vuole uccidere”, oggi il tema è definitivamente  archiviato. Dopo la declinazione nella “responsabilità di proteggere” di ratzingeriana memoria – “Se gli stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali” – , Papa Francesco ha chiuso la questione: la guerra non può mai essere giusta. Lo ha scritto nella sua ultima enciclica, Fratelli tutti, firmata ad Assisi sulla tomba di san Francesco: “Non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile ‘guerra giusta’”. E questo perché “facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una ‘giustificazione’. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune ‘rigorose condizioni di legittimità morale’. Tuttavia – aggiunge il Papa – si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi ‘preventivi’ o azioni belliche che difficilmente non trascinano ‘mali e disordini più gravi del male da eliminare’. La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti”.

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