PUBBLICITÁ

11 settembre, vent'anni dopo

Che ne è stato della polvere? Le Torri e gli altri crolli dopo di allora, dalla finanza alla memoria

Edward Vulliamy

Un pompiere in lacrime, i santuari improvvisati con i doni e i fiori, la sensazione di camminare calpestando una fossa comune. Ricordi della “settimana di New York”

PUBBLICITÁ

"Penso che faresti meglio ad alzarti dal letto”, disse una voce al mio orecchio sinistro, “il World Trade Center è in fiamme”. Ero rimasto fuori fino a tardi, al mio ritorno avevamo litigato e avevo dormito sul divano, vestito, il che è stato una benedizione, perché nel giro di trenta secondi eravamo entrambi giù all’angolo del mio isolato, a fissare il fumo nero che usciva dalle Torri gemelle. Mentre la maggior parte delle persone fuggiva, noi camminavamo verso le torri in fiamme a passo spedito. Poi, proprio mentre attraversavamo Grand Street, accadde l’impensabile: in quello che sembrava un lento movimento, la torre sud si staccò da se stessa, e precipitò. Ci mettemmo a correre verso l’unica ormai rimasta in piedi e in fiamme, la torre nord. Qualcosa di forte mi spinse verso di essa, con la speranza di entrarci. A sud di Chambers Street, un cordone di polizia bloccava la strada, mentre una folla di persone si allontanava dalla polvere grigia opaca che si spargeva ovunque. Non tutta la polvere era di quel colore: guardando in alto, abbiamo visto quelle che sembravano mosche lanciarsi a mezz’aria dai piani superiori, senza pensare di capire cosa fossero. “Cercate gli schizzi di polvere rosa”, disse un collega del Wall Street Journal, “che colpiscono il suolo come insetti sul parabrezza di un’auto”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


"Penso che faresti meglio ad alzarti dal letto”, disse una voce al mio orecchio sinistro, “il World Trade Center è in fiamme”. Ero rimasto fuori fino a tardi, al mio ritorno avevamo litigato e avevo dormito sul divano, vestito, il che è stato una benedizione, perché nel giro di trenta secondi eravamo entrambi giù all’angolo del mio isolato, a fissare il fumo nero che usciva dalle Torri gemelle. Mentre la maggior parte delle persone fuggiva, noi camminavamo verso le torri in fiamme a passo spedito. Poi, proprio mentre attraversavamo Grand Street, accadde l’impensabile: in quello che sembrava un lento movimento, la torre sud si staccò da se stessa, e precipitò. Ci mettemmo a correre verso l’unica ormai rimasta in piedi e in fiamme, la torre nord. Qualcosa di forte mi spinse verso di essa, con la speranza di entrarci. A sud di Chambers Street, un cordone di polizia bloccava la strada, mentre una folla di persone si allontanava dalla polvere grigia opaca che si spargeva ovunque. Non tutta la polvere era di quel colore: guardando in alto, abbiamo visto quelle che sembravano mosche lanciarsi a mezz’aria dai piani superiori, senza pensare di capire cosa fossero. “Cercate gli schizzi di polvere rosa”, disse un collega del Wall Street Journal, “che colpiscono il suolo come insetti sul parabrezza di un’auto”.

PUBBLICITÁ


Ho supplicato a un poliziotto di lasciarmi passare, mostrando il mio tesserino di giornalista. Con una testardaggine di cui gli sono ancora grato, si rifiutò di farmi passare. Avevo appena escogitato un modo per superarlo quando un suono terribile, come un treno che sferraglia dall’inferno, rimbombò fino in cielo, mentre la torre sopra di noi si sgretolava nella polvere. Solo un musicista avrebbe potuto rievocare quel momento: il mio amico John Cale, che viveva  lì, disse: “Su centinaia di persone che correvano, nemmeno uno di quei passi aveva generato tutta quella polvere”.
Amavo le torri. Le vedevo ogni volta che attraversavo il viale che chiamavo casa, e misuravo l’ora del giorno dalla profondità della luce del sole sulle loro travi d’acciaio: pallido verso mezzogiorno, color mandarino intenso all’alba e al tramonto. Le autorità chiusero l’area a sud di Houston Street, impedendo al pubblico di entrare in quella che veniva già chiamata “Ground Zero”, mentre le sirene delle ambulanze continuavano a suonare in quella mattina apocalittica. Una donna si gettò contro la polizia: “Il mio bambino è lì dentro! Il mio bambino è lì dentro!”. Al calar della notte, l’ospedale di Saint Vincent, a un isolato da casa mia, accoglieva i feriti.  La mattina dopo, mercoledì, iniziò quella che chiamo “la settimana di New York”. Si parlava di migliaia di feriti, e apparve il primo volantino attaccato a una cassetta della posta all’angolo della mia strada: “Scomparsa: Giovanna ‘Gennie’ Gambale”. Aveva un sorriso radioso ed era indicato un numero da chiamare.


La mattina di giovedì 13, il muro lungo l’11esima strada fino al Saint Vincent era coperto di avvisi simili. Era stato istituito un centro dall’altra parte della strada, nella New School, dove una signora di nome Sara Maddux cercò di aiutare Luís Morales a reperire notizie di sua moglie scomparsa, da dietro una lavagna; le disse che non ce n’erano e gli offrì un caffè, che lui sorseggiò tra lacrime e incredulità. Si formarono fiumi di candele e fiori, uno in Washington Square, dove di solito leggevo i giornali, e un altro in Union Square, dove di solito frequentavo Barnes & Noble, ma in cui dal 12 settembre in poi si tennero delle veglie. Sparsi per questi santuari improvvisati c’erano doni che la gente aveva voluto lasciare, per i morti, per chiunque, per New York:  accendini, penne vistose, orsacchiotti, orologi e gioielli. Fiori dappertutto – colori sgargianti nella luminosa atmosfera di settembre. Fra i tributi e gli stralci di messaggi ce n’era uno che diceva semplicemente: “Dónde están las torres?”, dove sono le torri? Ogni volta che attraversavamo la Sesta, ora fissavamo con incredulità assoluta il nulla.

Alle porte di Ground Zero, i servizi di soccorso e di emergenza si alzavano senza motivo. Ai pompieri veniva ripetuto: “Se qualcuno di voi ha completato il turno di 24 ore, per favore se ne vada”. Ma più e più volte tornavano o restavano al lavoro. Un pompiere di nome Stanley – con la fama di pugile e di bestemmiatore – in due giorni aveva perso almeno tre dei suoi compagni. Ma quando seppe che un collega scomparso era salvo, fu troppo per lui. Si strappò l’elmetto e la maschera, si sedette sul marciapiede, quasi si strozzò per le lacrime. Un negozio Brooks Brothers fu trasformato in un obitorio improvvisato; quelli che sembravano pezzi di terra (ma in realtà erano brandelli di esseri umani) venivano analizzati, classificati e imballati da persone che indossavano tuniche bianche. I sacchi per cadaveri venivano caricati in camion refrigerati – obitori mobili. Ho incontrato gli autisti di quello che sembrava un corteo funebre di camion attraverso il tunnel Brooklyn-Battery: trasportavano i resti in una discarica chiamata – senza esagerare – Fresh Kills, morti freschi.

PUBBLICITÁ

E nella stessa Ground Zero, cumuli di polvere incandescente coprivano montagne di metallo in brandelli, macerie e devastazione. Il lavoro faceva poco rumore, data la sua grandezza: squadre di “talpe” – esperti in lavori sotterranei, tra cui un uomo che conoscevo da anni, Russ Schneider, che si occupava del sistema di tubature sotto la Grand Central Station – si unirono alla ricerca di vie praticabili attraverso le catacombe. “Ci sono sempre delle sacche, come delle grotte”, insisteva un pompiere di nome Mel Myers della Ladder Company 103. Il terreno era così caldo che la gomma delle suole dei miei stivali si sciolse. Mi sentii dolorosamente consapevole del fatto che quella fosse una fossa comune di persone che non avevano fatto altro se non andare al lavoro una mattina. Ricorderò per sempre quel giorno, e la nobiltà di New York. Ma cosa si ricorda, venti anni dopo, e cosa è stato dimenticato? Nel giro di pochi anni, la città fu teatro di un crollo di tipo molto diverso – nel 2008, quello di Lehman Brothers e di altri giganti della finanza internazionale. Lehman aveva, a pensarci bene, dato un primo indizio: subito dopo la carneficina, aveva negoziato un’acquisizione dello Sheraton a nord della 51esima strada, e a una settimana dagli attacchi stava ristrutturando 665 stanze in modo che 1.500 banchieri si potessero mettere al lavoro, vendendo azioni, obbligazioni e, si è scoperto, debiti tossici.


Nel 2010, il Saint Vincent – l’“ospedale degli eroi” dell’11 settembre, i cui medici e infermieri avevano curato i feriti, e con cui bevevo quasi tutte le sere al Johnny’s Bar, lì accanto – fu chiuso per essere poi convertito in alloggi di lusso. Ecco come New York mostrò la sua gratitudine: condomini in quegli stessi reparti che avevano ospitato i sopravvissuti dell’11 settembre. L’America andò in guerra e, due decenni dopo, Manhattan ha un museo e Kabul ha di nuovo i talebani. Molti lo vedranno oggi come un monumento al fallimento. Ma cosa dire del monumento ai 2.606 morti nella sola New York – più gli altri di quel giorno – per le famiglie in lutto, eretto sullo  stesso luogo del massacro? La scelta più ovvia, il frammento d’acciaio che rimaneva della torre sud: avrebbe potuto essere messo in sicurezza e posizionato in un parco sul sito delle torri cadute di cui un tempo faceva parte, come uno dei monumenti più semplici e commoventi del mondo. New York avrebbe anche potuto conservare le torri di luce, apparse subito dopo gli attacchi, spettri degli edifici crollati. Ma le luci furono spente e il frammento rimosso per far posto alla mediocre Freedom Tower. Le autorità erano decise a far sì che il denaro contasse più della memoria nella ancora meravigliosa New York.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ