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11 settembre. Vent’anni fa l’attacco all’America

Adriano Sofri

L’occidente ha perso la guerra dei simboli. Lancia missili da elicotteri marziani, mentre gli altri mandano padri  imbottiti di esplosivo, ragazze incinte della propria bomba

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Qualcuna ha scritto e pubblicato un manifesto che dice: “Non abbiamo da perdere che le nostre catene, abbiamo un mondo da conquistare. Donne di tutto il mondo, unitevi!” 

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Qualcuna ha scritto e pubblicato un manifesto che dice: “Non abbiamo da perdere che le nostre catene, abbiamo un mondo da conquistare. Donne di tutto il mondo, unitevi!” 

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Si poteva pensare ai viventi così: i nati prima dello sbarco sulla luna, e i nati poi. Quando le Torri crollarono, si alzò una nube di polvere tossica così enorme che l’astronauta Frank Culbertson la vide distintamente, dalla Stazione spaziale internazionale.

Per gli attentatori dell’11 settembre, Manhattan era la luna, il Pentagono Marte. Costò pochissimo. Spedirono indietro gli spiccioli risparmiati.

 

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11-9-2001, martedì. Fino a lunedì il Pentagono e le Torri gemelle erano molto al di là delle fantasticherie comuni: con l’eccezione di quegli attentatori. Loro sapevano che cosa fosse possibile.

Erano rozzi abbastanza da riconoscere il valore più profondo dei nostri simboli. Da trasformare il rollo della Borsa nel crollo del quartiere della Borsa. Da vendicare il King Kong fuggiasco e finito sulla cima del grattacielo. L’occidente, così luccicante di marchi ed emblemi e logo, perde la guerra dei simboli. Lancia missili da elicotteri marziani, mentre gli altri mandano padri di dieci figli imbottiti di esplosivo e chiodi, ragazze incinte della propria bomba. Ora, per spingere fino al cielo l’assalto, gli uomini del terrore mettono insieme il suicidio fanatico con la potenza tecnica.

L’ obiezione che ci siano morti di pregio e morti senza valore: americani per cui ci si commuove, e iracheni e afghani per cui non si batte ciglio. Nelle Torri di Manhattan sono morte, si è detto, persone di sessantatré nazionalità diverse. Almeno 400, si è detto, erano musulmane. 

Il gendarme: è il sinonimo malvisto di poliziotto. Lo si deplora quando da gendarme cospira, rovescia governi, sostiene dittatori e squadre della morte. Gli si rinfaccia l’omissione quando si tiene alla larga dalla tragedia – come per il rifiuto di chiamare genocidio il genocidio dei tutsi, dunque di intervenire. Di volta in volta gli Stati Uniti sono gendarme o poliziotto del mondo. Il mondo non ne ha altri. Deve dotarsene, ma esita, se la prende con l’America, e si tiene al suo riparo. 

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Si pensa al mondo di prima, quando sembrava che la terra, mortale, sarebbe comunque durata ancora per un tempo incomparabile con la vicenda delle nostre vite personali e del pugno di generazioni che immaginiamo col nome di futuro. Prima di temere che fra il tempo delle vite nostre e dei nostri figli e nipoti, e il tempo del mondo, avvenga un corto circuito. Questo incubo è il sogno vero dei martiri suicidi e assassini: oltre i paradisi delle fontane e delle vergini. Il sogno di emulare il Creatore nel gesto finale del Distruttore. Di restituire al nulla la creazione. Di essere ciascuno Dio in terra – in terra, o nel suo aeroplano civile dirottato col taglierino.

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E’ probabile che i terroristi annettessero il massimo valore simbolico al Pentagono colpito. Siamo noi, è il nostro punto di vista civile, a riconoscere il simbolo più alto nelle Torri. “Quando furono completate, nel 1973, con i loro 417 e 415 metri di altezza rispettivamente, le Torri Gemelle erano gli edifici più alti al mondo”. 

 

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Noi siamo insidiati dal disprezzo e dalla paura. Loro dall’odio e dalla vendetta. Disprezzo e paura rendono imbelli; odio e vendetta rendono intrepidi. La nostra vita costa cara, la loro è senza valore, salvo quando venga scagliata contro di noi. Ci assaltano con una cintura di dinamite o con un nostro aereo e un loro temperino. Per reagire mobilitiamo la più immane potenza dei cieli della terra e delle acque. Stiamo gli uni agli altri in proporzione inversa di numero, di potenza e di impotenza. Della nostra maturazione fa parte l’idea di una relatività delle culture. Che non ce ne sia una sola, ma molte, e mutuamente degne di rispetto: non solo per principio, ma per effettiva ricchezza delle diversità. Com’è cresciuta questa idea di tolleranza e di curiosità rispettosa? Anche sulla scia della sopraffazione di altre culture, di altre genti, di altri mondi. L’antropologia, l’etnologia hanno accompagnato l’espansione della nostra cultura come l’impresario funebre segue il reggimento. 

Ma la relatività ha confini. C’è il rogo tradizionale del defunto maragià, il suttee, delizia degli studi etnologici, e la giovane vedova stordita per esservi bruciata viva: al diavolo il relativismo culturale. Astuzie, corruzione e botte da orbi, tutto è benvenuto per rapire la bella Auda all’orrenda catasta, portarla in salvo a Londra (e, caso mai, sposarla). Un senso appena decente del confine del relativismo culturale avrebbe imposto al mondo di fare i conti con l’esperimento Taliban, ben prima dell’assalto alle Torri. La prova della natura tradizionalista ma non tradizionale (islamista e non islamica), né “medievale”, ma perversamente moderna, dello stato-non stato afghano, sta nel grande mondo assaggiato da quegli scolari coranici e dai loro magnati arabi, la foto ricordo di Bin Laden a Stoccolma, la violenza feroce sulle donne afghane. Non schiave assuefatte tradizionalmente alla clausura, ma persone già istruite, libere, vive, frequentatrici di scuole e di luoghi di lavoro, con un viso e delle unghie curate, capaci di ridere e di cantare, catturate in un agguato improvviso e recluse nel burqa e nelle mura. La tradizione dei mullah di Kabul è solo questo: la cattura di donne che erano scappate dal recinto del bestiame, già da tanto tempo. (2021: la grande ricattura).

2001. Toccherebbe a noi una conversione, che freni la consunzione della terra, e riduca l’ostentazione e la venerazione di ricchezza e potenza. Di più: molta parte del mondo senza scarpe freme per scagliarsi a testa bassa contro i grattacieli del mondo ricco non in nome della povertà, ma per disprezzo dell’economia, per così dire. In quelle folle la povertà si trasfigura in idealismo ebbro: ciò che aborrono come una bestemmia è il sontuoso presepio di manichini e mannequin delle vetrine di New York, la nostra effimera Xian. In questo sguardo rabbioso e frustrato c’è forse un talento che dovremmo fermarci a considerare, per tenerci cara la nostra libertà, ma diventare più discreti e attenti. Per non dare scandalo. Nel Vangelo non si dice di non fare qualcosa, si dice di non dare scandalo. Non di non essere attaccati al proprio credo civile, ma di non vantarne la superiorità in faccia al mondo. Il mondo è sensibile e permaloso. In certi momenti è intrattabile.

 


Noi siamo insidiati dal disprezzo e dalla paura. Loro dall’odio e dalla vendetta. Disprezzo e paura rendono imbelli; odio e vendetta rendono intrepidi


 

Il bello slogan: vivere senza nemico. Buona idea, cui tendere. E dunque che non si realizza mai compiutamente. Il nemico c’è, e viene a cercarti. Il nemico può arrivare a cercarci dentro la nostra casa, nel cuore di Manhattan. Non siamo preparati, per tre cause almeno. L’evangelismo senza nemici è solo una. L’abitudine a considerare relativa – parziale, arrischiata – la nostra scala di valori, e meritevoli di rispetto e attenzione altri sistemi di valori, è la seconda ragione. La terza, ormai la più influente, è nel costume: nel pregio assegnato al piacere, alla piacevolezza e all’apparenza, nell’avversione al dolore, alla pazienza e alla fatica, nel ripudio del virilismo, nell’estetica e nell’anestesia.

Si dice dell’antica Sibari che perfino i suoi cavalli preferirono mettersi a danzare piuttosto che muovere all’incontro del nemico. Machiavelli derideva amaramente l’Italia del suo tempo, affidata a truppe mercenarie, che si lasciava “pigliare col gesso” dall’invasore forestiero. (2021: i talebani hanno pigliato col gesso l’Afghanistan intero, e la nostra santabarbara). 

La nostra civiltà può apparire ai suoi odiatori, che l’hanno frequentata e ne sono stati attratti e respinti, come una Sibari pronta a cadere per effeminatezza. Abbiamo dei nemici. Uomini pii, addestrati piamente a uccidere e morire, come insegnano i loro ripugnanti dépliant di istruzioni. Chiamano martirio nella guerra santa quello che noi, in mancanza dell’idea, chiamiamo suicidio. La loro sarebbe un’invasione di alieni, se non si fossero mutati guardandosi nel nostro specchio. E soprattutto se non avessero un legame, da campioni a tifoseria, con enormi folle umane accese a loro volta dalla frustrazione e dall’odio. Possono vincere? Forse no, ma noi possiamo perdere.

Possiamo perdere subito le prime prove, per scarsa combattività. Non dobbiamo vergognarcene, al contrario: la civiltà amabile e socievole cui tendiamo ha al centro una diserzione dalla brutalità, una premura per la fragilità e la debolezza. Ma soffre di una sproporzione. Accumula la potenza, una potenza fisica incorporata in congegni e ordigni di micidiale genialità, e la dissocia da una umanità tendenzialmente più imbelle, renitente all’infortunio e tanto più al rischio della vita. La caccia e il servizio militare non le si addicono più. Ha dei giovanottoni che dopo una settimana di “Isola dei famosi” piagnucolano e hanno tanta nostalgia di casa.

L’irruzione inattesa del nemico in una società disabituata, e anche moralmente restia ad ammetterne l’idea, spinge ad affidarsi alla sua gente più disponibile e adatta. Quando la guerra, finalmente, non è più il modello ispiratore dell’educazione, dell’addestramento dei corpi e della formazione dei caratteri, i combattenti si reclutano piuttosto fra le persone più illese dalla delicatezza e dalla convivialità dei costumi. Tanto più se la guerra inaspettata è per definizione dichiarata “sporca”: si ricorrerà a bravi specialisti, ma anche a qualche sporca dozzina, a qualche legione straniera, a quelli che in guerra prendono le medaglie e al ritorno vanno in galera per rissa e vagabondaggio.

Ma c’è in compenso quel pensiero sconvolgente, ai passeggeri dell’UA93 di Pittsburgh, che non si erano addestrati su un disgustoso vademecum del martire, e si sono ribellati e hanno scelto almeno il proprio precipizio. L’obiettivo era probabilmente la cupola del Campidoglio. (Nel 2020 è stato il presidente in carica a sobillare l’assalto al Campidoglio).

Poi Enrico Deaglio raccontò un aneddoto delizioso, un’anziana signora americana all’aeroporto cui vengono sequestrate le forbicine, e protesta: “Se è contro i terroristi, invece di toglierci le forbicine ci diano un coltello a testa”. 

 

2001. E’ la vendetta che il mondo reale trae sul mondo virtuale: qualcosa di simile ai cataclismi che si rivalgono dell’addomesticamento della natura. Le Torri erano crollate tante volte nei film di Hollywood: e ora crollavano davvero, con le persone vere. E’ la resa dei conti fra la cultura della finzione e il principio di realtà. Il rinnegamento progressivo della realtà aveva investito lo sviluppo spettacoloso di scienza e tecnologia, e la scissione dai condizionamenti naturali. Ed era diventato luogo comune. Ora il regno della virtualità si era rivelato come il regno della fragilità e della vulnerabilità. Le torri crollate (commemorate, fra poco, da simulazioni luminose), le Borse impazzite, gli aeroporti disertati, la posta infetta. Contro, stavano corpi di attentatori pronti a sgozzare con un taglierino e a immolarsi per fare strage all’ingrosso di altri corpi. Era questo ritorno della realtà la posta di quel giorno fatidico. Da subito ci si è divisi. (Sta lì l’incubatrice dell’imputazione del virus ai poteri occulti, 2021). C’era, su Radio Tre, un programma pomeridiano che chiedeva ad ascoltatrici e ascoltatori di scegliere una parola con la quale definire il 2001 che moriva. Le parole più ricorrenti furono: “inganno”, “truffa”, “impostura”, “illusione”.

Le Torri sono state una Sarajevo 1914 di cui però si è intesa subito la portata. Si assiste, in diciotto minuti, alla svolta epocale. Era sembrata richiamare la realtà dall’esilio e cancellare i giochi di parole. Si era dichiarata la scomparsa degli eventi, ed era avvenuto un evento incomparabile. Eppure, giorno dietro giorno, la vocazione virtuale e quella paranoica riprendevano il campo. Si reintroduceva nell’ideologia di sinistra, attraverso il culto della finzione e della onnipotenza mediatica, un panorama del mondo come Grande Cospirazione. In un saggio sul Monde, Jean Baudrillard conduceva la faccenda in modo scintillante. A partire dall’avvio: Siamo stati noi. Prima tesi: siamo stati noi, perché l’abbiamo sognato. (“Que nous ayons révée de cet événement...”). (Ma non ce lo siamo nemmeno sognato; nemmeno per sogno...). Seconda tesi: siamo stati noi, perché l’abbiamo immaginato, e abbiamo fatto i film. “Gli innumerevoli film-catastrofe testimoniano di questo fantasma / l’occidente onnipotente e suicidario /”. E’ il contrario: non l’abbiamo saputo immaginare: i film sono fatti per andare al di là dell’immaginabile. Invero le cose incredibili non sono quelle così terribili da non esser mai state immaginate: sono quelle immaginate, quando avvengano davvero. La realtà è rimossa perfino con qualche migliaio di morti, liquefatti, o volati giù dalle finestre. 

Un vigile del fuoco è morto schiacciato da un uomo che si era lanciato nel vuoto.

 

Bush, 2001: “Il popolo oppresso dell’Afghanistan conoscerà la generosità dell’America e dei nostri alleati. Mentre colpiamo obiettivi militari, lanceremo anche cibo, medicine e rifornimenti agli uomini, alle donne e ai bambini dell’Afghanistan che muoiono di fame e di sofferenza…”. Balle, naturalmente. Era detto che non potesse andare che così? Sì, sembrano rispondere all’unisono quelli del 2021. Ma ciascuno, proprio ciascuno, può interrogare se stesso e la propria parte di responsabilità: era inevitabile che andasse a finire così, lungo questi lunghissimi vent’anni? 

 

Il 4 gennaio 2002, i comandi americani annunciarono la morte del primo loro soldato ucciso dal fuoco nemico. Triste notizia, ma anche strana. Erano passati mesi. Il discrimine era stato reso evidente da loro, dal mullah Omar: noi desideriamo la morte come voi siete attaccati alla vita. E’ una discriminante da scrivere sulla nostra bandiera: la nostra morale e la loro. Ma prima di presentarla nella sua nitidezza morale – o di qua o di là – bisogna ripulirla dagli equivoci da ambedue i lati. Dal lato dei terroristi. Essi non sono indifferenti alla morte. Indifferente alla morte è il suicida individualista – cioè dolorosamente e sdegnosamente solo – e nichilista dei Demoni.

Ma i terroristi investono sulla propria morte. Ci tengono. Ne vogliono ricavare cento, mille volte tanto – una superlotteria. Dunque bisogna che sia una morte da martiri – come la intendono loro. E almeno altrettanto investono in vanità: devono recitarla, la morte, e prima agghindarsi, come un attore in camerino, fare le prove, profumarsi, filmarsi, semmai. Ammazzali fuori servizio, falli ammazzare da una donna, e ci rimarranno malissimo. Tengono alla loro morte come un avaro al proprio gruzzolo. Tengono alla loro morte come noi alla nostra vita, appunto: vogliono viverla, farla fruttare – non morirla. E dalla nostra parte? Anche qui c’è un equivoco. La “morte zero” è un feticcio recente. Un feticcio, perché riguarda solo la vita propria, dei propri: premura da viziati. E non è l’attenzione al risparmio di vite – quella che c’era già nell’esercito americano nella Prima o nella Seconda guerra, e imponeva la strategia dei bombardamenti protratti; e che non c’era nell’esercito italiano, che prevedeva la carneficina delle truppe. In questo senso – supremazia tecnologica in cambio della sicurezza delle proprie persone, anche ai danni delle persone altrui – la “morte zero” è recente, è successiva ai 63 mila morti del Vietnam (e alle migliaia di suicidi che vennero dopo).

 

E’ una ratifica dei tempi: che premio si paga a un’assicurazione per la vita di un cittadino americano e che premio per la vita di un afghano o uno della Sierra Leone? E poi la fiducia nella tecnologia, che promette di opporre uno schermo insuperabile fra la nostra umanità e quella nemica: è l’illusione dello Scudo stellare, l’entusiasmo dei droni. Fatto sta che la “morte zero” è uno dei moventi più forti di odio e di disprezzo per gli Stati Uniti. E’ l’idea di una prepotenza cristallizzata nei bombardamenti di alta quota e negli aerei invisibili. L’uomo scompare e resta un apparato schiacciante e stolido (“intelligente”) che colpisce da lontano e senza mira. Di qui l’umiliazione dell’americano nemico, il suo rimpicciolimento, la sua gogna, quando per accidente cade e viene catturato. E la sfida: il mullah Omar arrivò a sfidare a duello personale Blair. Si è osservato che il terrorismo suicida ha introdotto un’arma assoluta contro l’ideale della morte zero. Il terrorismo ha fatto migliaia di morti nel cuore metropolitano dell’impero, che riaprì gli arruolamenti alla guerra da vicino, alla guerra dei corpi. Tuttavia la conduzione dell’intervento in Afghanistan ha presto ripetuto le vie consuete del bombardamento da lontano e dall’alta quota. E si è conclusa negoziando l’incolumità dei propri, in cambio dell’abbandono altrui.

Intanto le parole fatali, “niente sarà più come prima” (le stiamo ripetendo da due anni) servono a esprimere la sensazione di una schiacciante enormità, ma anche ad addomesticarla. Per corrispondere a quella paura, la vita dovrebbe dimettersi. Invece, come banalmente si dice, la vita continua. Riprende i suoi diritti. L’11 settembre si è attoniti; il 12 spaventati; il 13 angosciati; il 14 svuotati; il 15 si torna fuori, a cercare un negozio aperto; il 16 si va a vedere la voragine; il 17 si torna a correre nel parco. Questo, fino al prossimo 11 settembre. Quando arriverà, di qualunque sciagura si tratti, tutti sapranno di averlo saputo, di averlo aspettato. Di non aver più corso nel parco come si correva prima.

 

Era abbastanza fuori corso nella nostra idea di noi stessi. Poi ce lo siamo sentiti dire a muso duro: “Occidentali!” – e ci siamo chiesti di nuovo che cosa significasse. Ammettete che la verità essenziale dell’occidente stia nella libertà delle donne: l’unico progresso che non sia finito in un vicolo cieco. (Femministe sospettano che la libertà delle donne sia diventata la nuova bandiera strumentale del dominio maschile occidentale: rischio del tutto secondario rispetto alla condizione reale delle donne nel mondo). La libertà delle donne non riguarda solo il loro destino – la metà più uno mancante alla libertà intera – ma l’universale condizione umana: a partire dal rapporto delle madri con i figli. Sta qui la differenza. Gli islamisti se ne accorgono, e lo mostrano con la loro scandalizzata gelosia. Noi occidentali, donne comprese, ce ne accorgiamo di meno. Pensiamo che sia affar loro, o tutt’al più che bisogni aiutare le loro donne a scegliere se indossare o no il velo. E’ raro che pensiamo all’eventualità che qualcuno voglia metterlo in testa alle donne occidentali, il velo. Gli islamisti del jihad si vedono anche come maschi valorosi e devoti all’assalto della gran prostituta occidentale. Le tappe dell’offensiva islamista, a partire dall’Iran khomeinista, poi nell’Afganistan talebano, in Algeria (e in Nigeria, in Bangladesh, e in altri paesi arabi e musulmani asiatici), hanno avuto questa posta: ridurre a nuova servitù donne che godevano di una libertà, o andavano conquistandola. E’ vero che la libertà delle donne è tutt’altro che costitutiva della storia occidentale. Il voto alle donne è conquista di ieri. La discriminazione è ancora impressionante. Tuttavia la segregazione femminile è ovunque impensabile. Le mutilazioni genitali sono sentite come una violenza raccapricciante. Le bambine studiano, le ragazze frequentano in maggioranza gli studi superiori, e con i risultati più brillanti. Le donne dispongono della propria capigliatura e del proprio abbigliamento. I giovani si scelgono. All’opposto, la condizione della donna (e della sessualità, e dell’educazione dei bambini) nell’islam contemporaneo concede assai poco all’incrocio di culture e non si spiega davvero con la filiazione dalla ginofobia occidentale. E’ un connotato eminentemente autoctono. Non è “occidentalista”, e tantomeno “orientale”. E’ islamico e, tristamente, islamista. (Forse l’islamismo è l’islam che ha paura di essere espropriato del proprio dominio, di non essere più padrone in casa propria).

 

Forse la libertà occidentale non sa esistere senza la povertà e la schiavitù di tanta parte del mondo. E’ un sospetto da prendere sul serio. Forse la libertà occidentale può diventare la libertà di tutti. Era una questione di giustizia. Ora è diventata una questione di vita e di morte. 

Paul Wolfowitz, 2003: “Come l’Impero romano, anche quello americano è destinato a esaurirsi. Dobbiamo sfruttare i 20/40 anni che ci rimangono per mettere ordine nel mondo”. Aveva capito tutto. Alla rovescia.

Il luogo comune parla del “rebus afghano”. Il rebus è la contraddizione fra l’impossibilità di venirne a capo coi mezzi della strapotenza militare e la vergogna di riabbandonare ai loro padroni le donne tornate a mostrare una faccia e le bambine tornate a frequentare una scuola.

Il corpo delle donne sembra fatto apposta per la prigione. Sembra così, voglio dire, agli uomini maschi. Il corpo delle donne deve essere castigato per il solo fatto di esistere, prima e a prescindere da qualunque trasgressione. Si dice proprio così. Avere un abbigliamento castigato, uno sguardo castigato, un comportamento castigato. Castigato e femminile sono pressoché sinonimi – o lo erano, ma la partita è tutt’altro che chiusa. Sicché la reclusione corporale è un destino arcaico e sempre riaggiornato delle donne: nella parte più interna della casa, o perfino dentro un abito che le infagotti, ne cancelli la forma, le sottragga alla vista altrui e le renda semicieche, invisibili e non vedenti. Il burka, prigione portabile, è una combinazione antica e modernissima di detenzione domiciliare e di traduzione penitenziaria. Il burka meglio del chador, grazie alla grata davanti agli occhi, corrispondente scrupoloso della grata della cella carceraria o della clausura monastica; benché il chador nella sua versione khomeinista più ortodossa gli faccia concorrenza con il suo lugubre nero d’ordinanza. La prigione portatile dell’uniforme femminile è già un’anticipazione di sudario.

Non esistono paesi refrattari alla libertà. Esistono persone e gruppi e classi refrattarie alla libertà altrui, e invadono la terra.

  


 

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