Kais Saied, presidente della Tunisia (Ansa) 

stato d'eccezione

Perché nella Tunisia della controrivoluzione la piazza sta con il presidente contro i partiti

Arianna Poletti

La soluzione non è tornare indietro, “le istituzioni sono compromesse da tempo”

“Ci dispiace deludervi, ma in Tunisia la vita continua normalmente”, scrive una blogger su Twitter rivolgendosi ai giornalisti stranieri. “Niente scontri per strada, si continua a lavorare”. Che le decisioni di Kais Saied siano state accolte positivamente dalla maggioranza dell’opinione pubblica lo ha dimostrato la folla che domenica sera, dopo una giornata segnata da proteste sparse per tutto il paese, è scesa in piazza a sostegno di chi aveva appena licenziato Parlamento e primo ministro per poi schierare l’esercito. Per ore, il 25 luglio, centinaia di manifestanti ritrovatisi sotto la sede dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo hanno chiesto proprio la dissoluzione del Parlamento e le dimissioni del premier Hichem Mechichi.

 

Kais Saied li ha accontentati, stabilendo che la Tunisia avesse raggiunto una situazione di “imminente pericolo per l’integrità della nazione”, come recita l’articolo 80 della Costituzione del 2014. Tre giorni più tardi, il paese è tornato a un’anormale quotidianità in attesa di capire quali saranno i prossimi passi dell’ex professore. Nel frattempo il Movimento del 25 luglio, che annunciava sui suoi canali social l’avvento di “una nuova rivoluzione”, ha indetto una manifestazione questo fine settimana a sostegno del presidente, chiedendo di non procedere al dialogo con i partiti come invece suggerisce parte della comunità internazionale. 

 

Se la Tunisia si è ritrovata nel giro di poche ore in pieno stato d’eccezione con l’approvazione dell’opinione pubblica è perché da mesi “il paese vive una sospensione dello stato di diritto”, sostiene Thierry Brésillon, analista esperto di Tunisia. “Chiedere il ritorno al normale funzionamento delle istituzioni democratiche non basta, proprio perché quelle stesse istituzioni non stavano più funzionando”.  Il punto di rottura è arrivato nel momento in cui la curva di apprezzamento di partiti, Parlamento e governo ha subìto un brusco crollo che ha coinciso con la quarta ondata della pandemia  in piena crisi economica. Ma la discesa della curva prosegue da anni: “Le istituzioni che avrebbero dovuto garantire la protezione del sistema democratico sono state usate per alimentare gli interessi economici e garantire l’impunità di chi le occupava”, osserva Brésillon. Proprio i partiti, compreso quello di maggioranza, Ennahda, hanno ritardato la nomina della Corte costituzionale a cui oggi spetterebbe il compito di limitare l’azione di Saied.

 

Così gli avvenimenti degli ultimi giorni tornano a ricordare a chi da fuori osserva il paese che ha dato il via alle primavere arabe che il processo democratico tunisino è tutt’altro che concluso: le dichiarazioni di Kais Saied – lo stop alle attività del Parlamento in nome di un articolo costituzionale – si reggono, vacillanti, proprio sulla base di inadempienze mai risolte. 

 

“Si è creduto che promulgare una nuova Costituzione bastasse a risolvere la questione democratica, ma occorre far fronte al funzionamento dello stato, al modello economico, alla questione della partecipazione dei cittadini”. Non è un caso, infatti, se a dieci anni dalla rivoluzione del 2011 le richieste della piazza non sono cambiate. I manifestanti continuano a pretendere “pane, dignità e libertà”: nei primi sei mesi del 2021, l’Osservatorio sociale tunisino ha contato 6.798 proteste a sfondo sociale ed economico in un paese in cui la frattura tra grandi città della costa, più benestanti, e periferie e regioni interne è sempre più profonda. “Saied unisce rivoluzione e controrivoluzione. Raccoglie i voti delle classi rimaste escluse dal sistema politico, ma anche quelli dei nostalgici di uno stato forte”, continua Brésillon. Secondo l’analista, il presidente potrebbe presto mettere sul tavolo l’enorme dossier della corruzione e del finanziamento illecito ai partiti. Il rapporto della Corte dei conti pubblicato dopo le elezioni legislative di ottobre 2019 inchioderebbe buona parte dei deputati eletti (217), mai sanzionati nonostante le irregolarità e i numerosi appelli della società civile. 

 

Come scrive l’intellettuale tunisino Aziz Krichen, consigliere dell’ex presidente Moncef Marzouki (2011-2014), la Tunisia post 2011 è stata presa in ostaggio da “un’oligarchia che ha rapporti molto stretti con la classe dirigente” e che costituisce quello che l’autore definisce come un rentier state. Questa minoranza coincide, agli occhi dell’opinione pubblica, con i partiti tradizionali e le istituzioni democratiche che la popolazione tunisina oggi rifiuta. Le avvisaglie della crisi c’erano tutte, a partire dall’ascesa del partito antisistema Qalb Tounes e dalla stessa elezione del presidente. Kais Saied si è presentato alle elezioni presidenziali di settembre-ottobre 2019 come il candidato anti sistema per eccellenza, promettendo di difendere la rivoluzione e la lotta contro la corruzione. Senza un programma preciso, spesso definito populista, l’ex professore di diritto teneva comizi nelle regioni interne e marginalizzate della Tunisia convincendo i giovani a votarlo. Se la sua popolarità è diminuita col tempo, per molti la sua voce è rimasta l’unica ascoltabile in assenza di alternative.

Di più su questi argomenti: