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È sempre notte in Myanmar

“È la giungla, il far west. Yangon è una terra di nessuno. Guarda le facce dei poliziotti: sembrano zombi, fatti di metanfetamine”

Massimo Morello

Lo sciopero indetto da lunedì e le manifestazioni hanno colto di sorpresa i militari che cercano di opporsi alla resistenza mischiando minacce e violenza. L'ultimo boicottaggio e la morte di Khin Maung Latt, della National League di Aung San Suu Kyi

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"Tutta Yangon è per strada. Sono a chilometri da casa mia ma sento le urla della gente. Stanno andando tutti verso Sanchaung", dice un amico che abita vicino all’aeroporto di Yangon. Mentre parla, ripetendo quel che gli dice la moglie birmana, s’avverte nella voce un senso di ammirazione per quella gente. "Sono incredibili", ripete. “Spari, penso una clearing operation a Saunchaung (...) Adesso spari più intensi”, sono i messaggi di un altro comune amico che vive in una delle zone più esclusive di Yangon.

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"Tutta Yangon è per strada. Sono a chilometri da casa mia ma sento le urla della gente. Stanno andando tutti verso Sanchaung", dice un amico che abita vicino all’aeroporto di Yangon. Mentre parla, ripetendo quel che gli dice la moglie birmana, s’avverte nella voce un senso di ammirazione per quella gente. "Sono incredibili", ripete. “Spari, penso una clearing operation a Saunchaung (...) Adesso spari più intensi”, sono i messaggi di un altro comune amico che vive in una delle zone più esclusive di Yangon.

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Tutti stanno andando in soccorso dei ragazzi a Saunchaung, uno dei distretti di Yangon. Dove le forze speciali hanno intrappolato un gruppo di manifestanti e gli danno la caccia casa per casa. La notte di lunedì 8 in Birmania comincia così. Che cosa stia accadendo davvero si saprà solo domani mattina. Si sta ripetendo il copione messo in scena tra domenica e lunedì notte. Ma questa rischia di essere una notte ancor più brutta.

 

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"Non si regala la democrazia. Non si dà in concessione", dice una fonte del Foglio che chiama da Yangon nella “brutta notte” tra domenica e lunedì 8 marzo. "Qui si erano convinti che i militari se ne sarebbero andati tranquillamente dopo le elezioni".  La notte, come scrive un’altra fonte da Yangon, “si sono sentiti spari, soprattutto per seminare il terrore (…) Secondo alcuni stanno occupando ospedali e università”. Gli spari continuano il giorno seguente, lunedì: uccidono due manifestanti a Myitkyina, nel nord del paese e uno a Pyapon, nel sud. Il totale dei morti  sale ad almeno 60 (conto sempre più condizionato da quell’ “almeno”). 

 

La repressione graduata tra paura, minacce e violenze è la tattica dei militari per opporsi a una resistenza che li ha colti di sorpresa paralizzando il paese. Ma non è stata sufficiente a prevenire le manifestazioni e lo sciopero indetto da lunedì. L’ultimo boicottaggio, che in occidente appare ingenuo ma qui ha un forte valore simbolico, è stato lavarsi i piedi con la Myanmar Beer, prodotta dalla Myanma Economic Holdings Limited, società di proprietà dei militari. Nel frattempo, si è raffinata anche la tattica nel fronteggiare le forze speciali: le manifestazioni di massa si sono frammentate, anche a livello di quartiere, per disperdere la repressione.  

 

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“È la giungla, il far west. Yangon è una terra di nessuno. Guarda le facce dei poliziotti: sembrano zombi, fatti di metanfetamine” scrive un amico da Yangon allegando un’immagine che in effetti sembra la scena di un film horror. Ma quell’amico non risparmia le critiche ai manifestanti. Anche lui, come rilevato dal Foglio, ha notato i Pi Ze, i tatuaggi esibiti dai più violenti. "Sono membri di gang. Non so perché lo fanno. Forse sono pagati dai trafficanti che vogliono creare caos. Forse sono criminali che approfittano della confusione per farsi gli affari loro". Sono sospetti che in questo caos si auto confermano. A farne le spese sono i “vasi di coccio”. "Chi ci va di mezzo sono poveri impiegati, maestri, dottori, che si trovano tra due fuochi. I militari li minacciano se non vanno a lavorare. I manifestanti, i politici che gli stanno dietro, li accusano di collaborazionismo se lo fanno". Molti temono di subire lo stesso isolamento sociale riservato alle famiglie dei militari. "Al mercato non gli vendono più da mangiare". Per un’altra fonte, un missionario di frontiera, quelle persone tra due fuochi sono i rappresentanti della piccola e media borghesia che si è creata in Birmania negli ultimi otto, dieci anni. "Non possono e non vogliono tornare indietro. Per loro è una responsabilità nei confronti dei loro figli. E intanto cresce la rabbia tra i più poveri, gli emarginati. Lo so. Vivo in mezzo a loro". “Il Myanmar non sarà mai più lo stesso” conferma un altro sacerdote, il Cardinale Charles Bo, l’artefice della visita papale nel 2017.

 

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La Birmania sta diventando la metafora di tutte le contraddizioni, le incertezze sociali, politiche ed esistenziali che contaminano l’Asia più del Covid (dove sembra esorcizzato da precedenti contatti con virus simili) in tutte queste le varianti dell’orrore. Dalla morte di Angel, ossia Deng Jia Xi o Kyal Sin (anche l’ambiguità del nome, cinese o birmano, è un segno) la diciannovenne uccisa il 28 febbraio, all’esumazione del suo cadavere il 5 marzo perché i militari volevano dimostrare che non era stata uccisa dalle loro armi. Mistero non ancora risolto. Secondo i manifestanti sarebbe vittima della maledizione di Vasipake Sayadaw, un monaco noto come astrologo e weikza, mago. Sarebbe lui il consigliere del generale Min Aung Hlaing, l’anima nera del golpe, e di sua moglie Daw Kyu Kyu Hla. Oltre ad aver dato i suoi consigli astrologici ha suggerito di sparare alla testa dei manifestanti per chissà quale oscura magia. Ed è alla testa che hanno sparato ad Angel e a molti dei manifestanti. Compresi quelli uccisi a Myitkyina. Meno rapida la morte di Khin Maung Latt, un quadro della National League di Aung San Suu Kyi, prelevato dalla polizia nella notte tra sabato e domenica. Il cui corpo è stato riconsegnato alla famiglia il mattino dopo. Secondo l’Associazione dei prigionieri politici è deceduto in seguito alle violenze subite in quelle poche ore. C’è da temere che la stessa sorte sarà riservata a molti dei prigionieri misteriosamente scomparsi. 

 

 

"Quello che fanno è tremendo", dice il sacerdote. "Ancor più perché non si rendono conto delle loro azioni. Credono di vivere ancora negli anni ’80, ’90. Applicano lo stesso comportamento, la stessa propaganda. Se non fosse tragico sarebbe ridicolo".

 

Lo stesso comportamento è tenuto anche dall’occidente: un boicottaggio “ad personam”, condanne formali, rifiuto d’incontrare i rappresentanti del governo, ritiro di alcune compagnie. Specie queste ultime azioni, più che alla condanna del regime, vanno attribuite all’incertezza della situazione interna. Né sembra che i “big-ticket energy investors” le multinazionali interessate allo sfruttamento energetico, abbiano annunciato il ritiro dal paese. Per ora si limitano a tenere un basso profilo in attesa degli eventi. I gruppi asiatici poi (compresi quelli giapponesi) non hanno rilasciato alcun commento di condanna. Posizione che sembra giustificata dalle dichiarazioni di cautela di Peter Mumford responsabile per il Sud-est asiatico dell’Eurasian Group, società di consulenze geopolitiche e analisi dei rischi.

 

 

L’economia della Realpolitik trova la sua massima espressione nella posizione cinese. Per quanto il governo di Pechino non abbia gradito la destabilizzazione innescata dal golpe, “con il golpe o senza, il trend di crescita dell’influenza cinese in Myanmar dovrebbe continuare” si legge nel rapporto di Eurasia Group. E l’analisi degli interessi cinesi si arricchisce di giorno in giorno di nuovi elementi. Gli ultimi, letteralmente, sono gli elementi “pesanti” delle terre rare, minerali utili per la realizzazione di laser, barre di controllo per reattori nucleari, componenti elettroniche, che la Cina importa dal Myanmar per oltre il 50 per cento delle sue esigenze. Il destino del Myanmar, dunque, dipende sempre più dalla Cina di quanto, e soprattutto con chi vorrà difendere i propri interessi.  Nei social media, infatti, si sta diffondendo un messaggio che potrebbe avere conseguenze inquietanti. “Se la Cina continua ad affermare che ciò che accade in Myanmar è un affare interno, anche far saltare il gasdotto che attraversa il Myanmar è un affare interno. Vediamo cosa dite”. 

 

"Sembra davvero d’essere in un film", dice l’amico di Yangon. "Uno di quei film che piacciono tanto da queste parti. Dove quando è finito non capisci cos’è successo".

 

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