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La logica del caos

Quel che dicono i tatuaggi della protesta in Myanmar

Le manifestazioni a Mandalay non sembrano dettate dal desiderio di restaurare la democrazia. I partecipanti non sono della casta dei giovani del Civil Disobedience Movement: lottano con pietre e fionde non con l’arma della disobbedienza civile.

Massimo Morello

I pi ze, dolorosamente impressi sulla pelle da un sanya, uno sciamano, sono in molti casi il segno di appartenenza a una gang, a un gruppo di uomini che hanno bisogno di protezione

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I “pi ze”, i tatuaggi magici, non hanno protetto i manifestanti che sabato pomeriggio hanno affrontato militari e polizia birmana nella zona del porto fluviale di Mandalay, la seconda città del Myanmar, manifestazioni che hanno lasciato sul terreno almeno due morti e decine di feriti.

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I “pi ze”, i tatuaggi magici, non hanno protetto i manifestanti che sabato pomeriggio hanno affrontato militari e polizia birmana nella zona del porto fluviale di Mandalay, la seconda città del Myanmar, manifestazioni che hanno lasciato sul terreno almeno due morti e decine di feriti.

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Per alcuni sono un primo segnale di quella carneficina che prevedono di giorno in giorno, come segno di forza o debolezza dei militari oppure di coloro che si oppongono a Tatmadaw, l’esercito, che ha ripreso il potere con il golpe del 1° febbraio. Per altri sono un “incidente” nel percorso che ha per obiettivo un governo di unità nazionale. Altri ancora attribuiscono i morti al tiro di un cecchino, secondo una tattica ben collaudata in Sud-est asiatico, segno di una premeditazione per arrivare allo scontro finale. Che potrebbe essere voluto dai cinesi, oppure dai signori della droga che controllano le milizie etniche, a loro volta controllate dai cinesi, oppure complici della nuova giunta militare.

In questa trama in cerca d’autore, dove gli stessi analisti divengono parte di fazioni antagoniste, i tatuaggi e il luogo degli scontri di sabato nascondono qualche piccolo indizio che può aiutare a comprendere che cosa stia accadendo.

I pi ze, dolorosamente impressi sulla pelle da un sanya, uno sciamano, sono in molti casi il segno di appartenenza a una gang, a un gruppo di uomini che hanno bisogno di protezione: dal morso di un serpente, da una coltellata o da un colpo di pistola. Il luogo è là dove i serpenti possono ancora annodarsi, il porto fluviale di Mandalay, ancor oggi molto simile alle descrizioni di fine Ottocento rappresentate da Kipling, abitato da una popolazione di dannati della terra che vivono sulle chiatte o in capanne di teloni e lamiere sul fango, che riescono a sopportare il peso dell’esistenza a forza di metanfetamine.

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Le manifestazioni di sabato sono scoppiate là. A quanto racconta una fonte del Foglio (che sembra confermata in un articolo del New York Times) è accaduto perché i militari volevano sequestrare uno o più battelli e i loro equipaggi per raggiungere la città di Bhamo, 200 miglia più a nord, nello stato Kachin. Probabilmente, ma è solo un sospetto, per trasportare armi, munizioni e carburante alle truppe stanziate nella regione per far fronte al Kachin Independence Army, una milizia etnica in conflitto col governo centrale. Negli ultimi tempi sembrava aver raggiunto un accordo con i militari ma ora potrebbe aver rotto la tregua. Il che potrebbe anche significare una recrudescenza dell’attività militare nella regione in funzione anticinese, poiché i Kachin sono i più forti oppositori alla costruzione della diga di Myitsone, considerata d’importanza strategica dal governo di Pechino. Il progetto era stato sospeso nel 2017 ma recentemente la stessa Aung San Suu Kyi aveva riaperto il dialogo.

Le manifestazioni di sabato a Mandalay, dunque, non sembrano dettate da un desiderio di restaurare la democrazia. I partecipanti non sono della casta dei giovani del Civil Disobedience Movement, lottano con pietre e fionde non con l’arma della disobbedienza civile. Quelle manifestazioni sono piuttosto la descrizione plastica delle conseguenze del golpe: il caos. Per questo appariva improbabile, e oggi è riconosciuto anche da quegli analisti che soffrono della sindrome di “Fu Manchu” (personaggio che incarnava il genio del male nei romanzi dello scrittore Sax Rohmer che ebbero grande successo nei primi del Novecento), che sia stata la Cina a ispirare il golpe. A meno che con Cina non s’intendano le Triadi, che in Birmania hanno un giro d’affari di miliardi di dollari e dal caos traggono forza.

Il governo di Pechino, invece, come ha dichiarato l’ambasciatore in Myanmar Chen Hai, non ha alcun interesse che il paese “divenga instabile o addirittura precipiti nel caos”. L’attuale situazione, secondo Chen “è qualcosa che la Cina non voleva assolutamente vedere”, ed è “un totale nonsenso” credere che sia coinvolta nel golpe. Il che non significa, tuttavia, che la Cina sia disposta a perdere il controllo sul Myanmar, pedina fondamentale nella sua strategia delle nuove vie della seta, passaggio tra la provincia dello Yunnan e il Golfo del Bengala, dove sbarca l’80 per cento del greggio e delle altre commodity indispensabili al suo sviluppo. Molti commentatori cinesi hanno addirittura manifestato il loro sostegno al processo di democratizzazione. "E’ interesse della Cina che il Myanmar esca dal suo isolamento. Un Myanmar isolato è un Myanmar instabile", ha dichiarato Zhao Daojiong, economista dell’università di Pechino.

In questa prospettiva, la Cina si adatterà seguendo le regole del wei ch’i (gioco di strategia noto col nome giapponese di go). Che ha per obiettivo quello di guadagnare territorio e non la distruzione dell’avversario (come avviene negli scacchi). Ciò significa che forse la Cina farà buon viso a cattivo gioco: se non ha ispirato il golpe, potrebbe sostenerlo per evitare il collasso del paese. Di cui già si avvertono i segni – temuti soprattutto dai residenti esteri – nella crisi finanziaria e bancaria che potrebbe potare anche a sedizioni interne all’esercito considerando che a breve i soldati non riceveranno lo stipendio.

A quanto sembra gli ignari autori del complotto sono quei generali che hanno programmato un golpe credendo che il tempo si fosse fermato a quello del 1988. Quando Internet non esisteva, né il Bancomat, né i social. E se la manifestazione di sabato a Mandalay può essersi svolta secondo un vecchio copione, quelle di domenica nella stessa città e ancor più le manifestazioni previste per lunedì in tutto il paese ne seguiranno un altro. Di cui nessuno conosce ancora il finale.  Salvo forse i bedin saya, gl’indovini, che interpretano la data del 220221, come un numero favorevole. Ma non dicono a chi. Lo scopriremo lunedì a mezzogiorno. Le 12, per rimanere nella numerologia locale. Quando verrà sbloccato Internet, e potranno riprendere le comunicazioni interrotte all’una del mattino. Ma forse avremo notizie prima per strani canali. Forse non ci sarà nulla da scoprire. Ancora una volta la Birmania è la scena del teatro dell’assurdo asiatico.

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