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Censura in India

L'attivista incastrato e il governo Modi

Due anni di prigione, un cyberattacco per piegare il dissenso. Poi c'è la querelle con Twitter, e il suo sostituto patriottico

Paola Peduzzi

L’indagine che ha svelato l'attacco circola in modo molto meno fragoroso rispetto ad altri lavori di inchiesta non governativa, come quelli di Bellingcat che ci ha svelato le bugie dei servizi segreti di Vladimir Putin, perché nella percezione internazionale Modi non si colloca ancora tra i  democratici illiberali

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Un gruppo di attivisti in India è da più di due anni in prigione: è accusato di aver progettato un colpo di stato contro il governo di Narendra Modi, con l’aiuto del Partito comunista maoista. Il più conosciuto degli appartenenti al  “commando”, come lo definiscono i  filogovernativi, è Rona Wilson, attivista e scrittore di quasi cinquant’anni che da anni si batte per la liberazione dei prigionieri politici e denuncia la deriva illiberale del governo. Lui sarebbe la mente dei cinque, lui avrebbe fatto un piano per assassinare Modi  “in un incidente in stile Rajiv Gandhi”, l’ex premier indiano ucciso nel 1991 in un attentato delle Tigri tamil. (Peduzzi segue a pagina quattro)
Le prove? Una serie di documenti e lettere ritrovate nel computer portatile di Wilson in seguito a una perquisizione a casa sua fatta poco prima dell’arresto.

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Un gruppo di attivisti in India è da più di due anni in prigione: è accusato di aver progettato un colpo di stato contro il governo di Narendra Modi, con l’aiuto del Partito comunista maoista. Il più conosciuto degli appartenenti al  “commando”, come lo definiscono i  filogovernativi, è Rona Wilson, attivista e scrittore di quasi cinquant’anni che da anni si batte per la liberazione dei prigionieri politici e denuncia la deriva illiberale del governo. Lui sarebbe la mente dei cinque, lui avrebbe fatto un piano per assassinare Modi  “in un incidente in stile Rajiv Gandhi”, l’ex premier indiano ucciso nel 1991 in un attentato delle Tigri tamil. (Peduzzi segue a pagina quattro)
Le prove? Una serie di documenti e lettere ritrovate nel computer portatile di Wilson in seguito a una perquisizione a casa sua fatta poco prima dell’arresto.

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Un’indagine di questi giorni portata avanti da un’azienda americana, l’Arsenal Consulting, che recupera e analizza il materiale trovato nei dispositivi digitali in relazione a episodi di criminalità informatica, spiega che cosa è successo: un attacco informatico con un malware ha permesso di piazzare nel computer di Wilson  dieci documenti che l’accusa porta come prova della colpevolezza del “commando”. L’Arsenal Consulting non sa risalire agli autori dell’attacco informatico ma dimostra che c’è stato un hackeraggio con l’obiettivo di incastrare Wilson.

 

L’indagine dell’azienda americana circola in modo molto meno fragoroso rispetto ad altri lavori di inchiesta non governativa, come quelli di Bellingcat che ci ha svelato le bugie dei servizi segreti di Vladimir Putin, perché nella percezione internazionale Modi non si colloca ancora tra i  democratici illiberali. Si tratta per lo più di distrazione: se si guardano i dati sulla censura e sulla libertà di espressione in India si registra un costante deterioramento dello stato di diritto, per non parlare delle campagne culturali contro i simboli dell’India multietnica e multireligiosa. Lo chiamano ancora populismo induista, ma è molto di più. L’indagine su Wilson e il suo gruppo nasce  dalla stessa preoccupazione: è vero tutto ciò che si dice di Modi liberticida?

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La querelle con Twitter che tiene banco da giorni ne è un’altra dimostrazione. In occidente siamo  sensibili alla faccenda, perché “il popolo di Twitter” ha molto peso nel nostro dibattito pubblico e perché questa settimana l’ex presidente americano Donald Trump è stato cacciato per sempre dal social. Quando si è saputo che in India Twitter ha acconsentito a sospendere centinaia di account legati alla protesta dei contadini, la reazione istintiva è stata unanime: se un social ha il potere di decidere che cosa si può dire e che cosa no, la libertà d’espressione ne uscirà a pezzi. In realtà, la storia indiana non è così banale, anzi: Modi considera la censura di Twitter insufficiente e minaccia i dipendenti della società. Twitter si è infatti rifiutato di sospendere gli account di giornalisti, attivisti, lavoratori che non hanno violato alcuna regola né, e su questo il governo dissente, alcuna legge indiana. Il governo Modi si è arrabbiato ma è talmente convinto che non riuscirà a domare Twitter che sta facendo sempre più pubblicità a Koo, un sito di microblogging che è considerato l’alternativa patriottica a Twitter. Smita Barooah, che dal 2014 coordina le campagne online del Bharatiya Janata Party, il partito di Modi, ha scritto (su Twitter ovviamente): “Ehi gente, ora sono su Koo, nel caso Twitter venga chiuso in India per essersi preso gioco delle nostre leggi”.
  

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