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Censura al New York Times. Più il giornale si sforza di sembrare bilanciato, più la redazione si scatena

Daniele Ranieri

Un editorialista conservatore difende un giornalista cacciato, ma il suo articolo non esce. Una sequenza in crescendo di litigi interni

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Il New York Times è la piattaforma media più potente d’America e conserva una credibilità enorme, ma la redazione è agitata da una sequenza in crescendo di litigi, rivolte e scandali interni che girano sempre attorno allo stesso tema: qualcuno del Nyt ha detto qualcosa che irrita gli altri giornalisti e quindi va punito, anzi cacciato. I giornalisti del Nyt sono millequattrocento e le notizie di queste risse finiscono sempre per trapelare all’esterno. A quel punto gli altri media che non aspettano altro ci si gettano con gusto e si scatena una discussione paradossale: possiamo davvero fidarci del Nyt se passa tutto questo tempo a censurare i suoi giornalisti perché le loro idee sono sgradite? 

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Il New York Times è la piattaforma media più potente d’America e conserva una credibilità enorme, ma la redazione è agitata da una sequenza in crescendo di litigi, rivolte e scandali interni che girano sempre attorno allo stesso tema: qualcuno del Nyt ha detto qualcosa che irrita gli altri giornalisti e quindi va punito, anzi cacciato. I giornalisti del Nyt sono millequattrocento e le notizie di queste risse finiscono sempre per trapelare all’esterno. A quel punto gli altri media che non aspettano altro ci si gettano con gusto e si scatena una discussione paradossale: possiamo davvero fidarci del Nyt se passa tutto questo tempo a censurare i suoi giornalisti perché le loro idee sono sgradite? 


La settimana scorsa l’editorialista e premio Pulitzer Bret Stephens ha dedicato la sua rubrica settimanale “per il Nyt” alla cacciata “dal Nyt” di Donald McNeil, un bravo reporter scientifico che lavorava al giornale dal 1976. McNeil durante un viaggio sponsorizzato dal Nyt con venti studenti in Perù aveva parlato a cena del caso di una dodicenne che rischiava la sospensione perché aveva usato un insulto razzista. Il punto è che McNeil quando aveva chiesto informazioni sul caso aveva ripetuto l’insulto razzista nella sua domanda e questa è stata la sua fine. Stephens è il rubrichista di destra del Nyt, assunto apposta perché il giornale vuole compensare la  percezione di essere troppo woke. Nella sua rubrica spiegava che in tutte le vicende della vita conta l’intenzione: se pronunci un insulto mentre fai una domanda si tratta di un fatto non paragonabile per gravità all’uso intenzionale. Il problema è che la rubrica è saltata, censurata per volere di Arthur Sulzberger, dirigente del Nyt. In effetti sappiamo che cosa diceva soltanto perché qualcuno da dentro alla redazione del Nyt l’ha passata al tabloid New York Post, trucido e trumpiano, che l’ha sparata con soddisfazione: “Ecco cosa non volevano farvi leggere”. Il Daily Beast ha rivelato la storia di come McNeil è stato fatto fuori. In prima battuta il direttore del Nyt, Dan Baquet, lo aveva soltanto ammonito con durezza e in forma scritta. Poi però un cartello interno di centocinquanta redattori capeggiato da Nikole Hannah-Jones aveva protestato e aveva preteso con una lettera firmata da tutti il licenziamento, arrivato poco dopo.

La portavoce del Nyt dice che non è vero e spiega che il licenziamento è stato deciso prima della lettera, quindi – è il sottinteso – non esiste una brigata woke che impone le decisioni. La Hannah-Jones è un peso massimo dentro il giornale, ha creato il controverso Progetto 1619, che rispiega la storia americana mettendo al centro la questione della schiavitù e del razzismo contro gli afroamericani (e ci ha vinto il Pulitzer). E Stephens anche allora aveva scritto una rubrica per spiegare cosa non andava nel Progetto 1619 – quella volta però era stata pubblicata, pur con molti malumori. Più il Nyt si sforza di compensare la percezione di essere dominato da una redazione woke che non tollera il dissenso e più forti circolano le storie sulla redazione woke che non tollera il dissenso. 
 

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