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il foglio del weekend

La moda di Biden

Fabiana Giacomotti

Anche nel fashion c’è una mezza rivoluzione. Parla Daniel Roseberry, direttore creativo di Schiaparelli, che ha vestito Gaga per l’insediamento

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Daniel Roseberry, direttore creativo di Schiaparelli, non si aspettava i commenti e i meme a milioni che hanno fatto seguito all’apparizione di Lady Gaga nel suo abito rosso e blu sulla scalinata del Campidoglio a Washington, due settimane fa. La parodia che in Italia ne ha fatto Luciana Littizzetto non faceva ridere neanche un po’, ma era comunque un segno della potenza di quell’immagine. “Non c’è stato molto tempo per pensare”, racconta. “Sono stato contattato dal team di Gaga (nessuno la chiama più né Stefani, che è il suo nome di battesimo, né con il nome d’arte per intero, ndr) una settimana prima della cerimonia. Poche ore dopo mi hanno mandato il brief: l’abito avrebbe dovuto essere leggero, in linea con l’occasione ma, per come lo intendevo io e mi avevano dato molta libertà, anche “worthy of Gaga”, cioè all’altezza della sua storia e della sua figura pubblica. In un paio d’ore le ho mandato due silhouettes. Ne ha scelta una: le piaceva il contrasto fra la giacca severa, che mi ha chiesto blu, e la gonna ampissima, rossa. In realtà”, concede, “è stata una collaborazione creativa”.

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Daniel Roseberry, direttore creativo di Schiaparelli, non si aspettava i commenti e i meme a milioni che hanno fatto seguito all’apparizione di Lady Gaga nel suo abito rosso e blu sulla scalinata del Campidoglio a Washington, due settimane fa. La parodia che in Italia ne ha fatto Luciana Littizzetto non faceva ridere neanche un po’, ma era comunque un segno della potenza di quell’immagine. “Non c’è stato molto tempo per pensare”, racconta. “Sono stato contattato dal team di Gaga (nessuno la chiama più né Stefani, che è il suo nome di battesimo, né con il nome d’arte per intero, ndr) una settimana prima della cerimonia. Poche ore dopo mi hanno mandato il brief: l’abito avrebbe dovuto essere leggero, in linea con l’occasione ma, per come lo intendevo io e mi avevano dato molta libertà, anche “worthy of Gaga”, cioè all’altezza della sua storia e della sua figura pubblica. In un paio d’ore le ho mandato due silhouettes. Ne ha scelta una: le piaceva il contrasto fra la giacca severa, che mi ha chiesto blu, e la gonna ampissima, rossa. In realtà”, concede, “è stata una collaborazione creativa”.

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Siamo in Zoom a parlare dell’outfit di Gaga per la cerimonia di insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti o, come sarebbe più corretto definirlo, di quell’editoriale in lana pettinata e taffettà nel quale la popstar ha interpretato lo “Star-spangled banner”. E’ già adesso l’abito dell’anno e siamo solo a febbraio. Roseberry è seduto alla scrivania del suo ufficio al terzo piano di Place Vendome 21, il celeberrimo Hotel de Fontpertuis che Elsa Schiaparelli acquistò nel 1935, facendolo arredare da Jean Michel Frank e Alberto Giacometti, e che crediamo sia tuttora l’asset principale della maison acquistata da Diego Della Valle quindici anni fa. Noi siamo sfollati al lago Maggiore per timore che la conquista della “zona gialla” sarebbe stata interpretata come un liberi tutti da parte del bauscia medio milanese, come in effetti è stato. Ci mostriamo vicendevolmente il nostro ambiente, pallido tentativo di dare calore a un’intervista a ottocento chilometri di distanza. Gli spiace un po’ di non trovarsi negli Stati Uniti “in un momento storico così interessante”. Come tutto il mondo della moda, che voltò le spalle a Donald Trump, Melania compresa, il giorno uno della presidenza, anche Roseberry si è messo subito a disposizione per l’Amministrazione Biden, da cui si aspetta “grandi cose”, soprattutto in termini di inclusione e diritti civili. “L’abito di Lady Gaga è stata una lettera d’amore per il mio paese. Non mi ero mai misurato con la simbologia politica del vestire; leggere le reazioni al suo outfit è stata una sorpresa”.

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Stiamo parlando da venti minuti, e da dieci la voce della coscienza ci suggerisce di chiedergli scusa, di certo delle spiegazioni, o almeno una contestualizzazione migliore di quella che abbiamo dato noi nei giorni scorsi commentando sulla base della nostra esperienza culturale la grande spilla di metallo dorato a forma di colomba della pace che Daniel aveva appuntato sul petto della sua eroina. Avremmo dovuto farlo tenendo conto anche della sua storia personale, e invece tirammo fuori Jean Cocteau. Per giorni, ovunque, collegando l’ovvio: Elsa Schiaparelli, “l’artista italiana che fa vestiti”, come la definiva Coco Chanel, che era invece un’interprete sopraffina della quotidianità e dunque la detestava, il Surrealismo, il ruolo di Cocteau nel movimento e nelle collaborazioni con “Schiap”. Non sapevamo ancora che Roseberry, con il suo faccino pulito e la barba curata da giovane Lincoln, già spruzzata di bianco nonostante i trentacinque anni di età, è figlio di un pastore anglicano ed è cresciuto cantando gli inni ogni domenica in chiesa, a Dallas, con tre fra sorelle e fratelli di cui uno si è consacrato a sua volta. “La colomba della pace è un simbolo ricorrente nella mia vita”, osserva: “Quando ho creato l’abito di Gaga mi è venuto spontaneo disegnarla, ma non ho pensato a Cocteau, e nemmeno a Picasso o ai tanti artisti che l’hanno interpretata. Mi sono ispirato a un piccolo decoro natalizio di porcellana bianca che stava appeso alla lampada della cucina, a casa”. Di Roseberry non sapevamo nemmeno che, fra un anno di frequenza alla North Texas University e la seconda domanda di ammissione al Fashion Institute of Technology, avesse trascorso un anno come missionario in Pakistan, Giordania e Kashmir, “distribuendo beni di prima necessità e insegnando inglese”. Gli facciamo notare come dedicarsi agli altri in contesti lontani dal proprio sia il classico percorso di chi sta cercando la propria identità. Annuisce: “Ha perfettamente ragione”.

 

Che Roseberry oggi interpreti la stilista che più di ogni altra lavorò sul tema della maschera, della trasformazione di sé e della modificazione del corpo, “e lo faceva anche con una certa crudezza” è meno stravagante di quanto sembri. Entrambi cresciuti in famiglie rigorose, entrambi al tempo stesso introversi ed estroversi, entrambi poco portati per i fronzoli, i ricamini, le delicatezze, entrambi interessati agli estremi: del colore, dei tagli, della percezione del reale, cucendoli insieme o facendoli modellare in gioielli antropomorfi. L’ultima collezione couture, che Roseberry ha presentato tre giorni dopo la Gaga-performance, è quanto di più “schiaparellico-contemporaneo” si sia visto in un decennio. Materiali inediti per l’alta moda (lei introdusse le zip di plastica a vista ancora negli anni Trenta; lui, per esempio, l’elastico sui pantaloni in pelle), e poi ogni genere di divertissement negli accessori: borse a lucchetto, dita dorate trompe l’oeil sulle scarpe. “Non so perché tante donne rigorose vengano da me a vestirsi” civettava Elsa Schiaparelli. Roseberry modella gusci di corpi, di dita, di nasi e bocche; li riproduce e li esplora con curiosità, per la gioia di pavoneggiarsi e di mostrarsi. Di dire io-ci-sono. Io sono questo.

 

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“Mi iscrissi a un’associazione cristiana e, dopo un lungo periodo di training, venni mandato con un gruppo di volontari a occuparmi di profughi”. Crescere nella Bible Belt, il cuore dell’America bianca, populista e razzista, pullulante di quei patrioti che il 6 gennaio hanno dato l’assalto a Capitol Hill, non è una buona premessa se sei un ragazzino gay che sogna di vivere a New York e occuparsi di moda, ma state certi che accennandovi dei dolori del giovane Roseberry non vogliamo scrivere un sequel a quel brutto film che è “The prom”: vogliamo solo darvi la misura della meraviglia che lo coglie ogni mattina quando apre la finestra del suo appartamento con vista sulla Senna e si dice che se questo è accaduto a lui, non ci sono limiti alla Provvidenza. Ha postato un video delle Tuileries di prima mattina (si alza all’alba) sul suo account Instagram, che alla data in cui scriviamo conta 119 mila follower; scorrendolo, vi si colgono in controluce molte informazioni interessanti sulla sua persona. C’è un’incantevole china di due scimpanzé, mamma e cucciolo, datato 1975, opera della mamma che gli insegnò a disegnare; ci sono molti collage autobiografici di ispirazione surrealista, tutti antecedenti all’ingaggio in Schiaparelli. C’è autoritratto a matita in guisa di Sfinge. Una riproduzione da “Cremaster 5” di Matthew Barney, metabolizzatore maximo di generi e stile. Qua e là si trova una fotografia relativa al lungo periodo (undici anni) di collaborazione con Thom Browne, compagno di vita di Andrew Bolton, curatore in capo del Costume Institute del Metropolitan Museum e braccio destro di Anna Wintour nelle attività espositive. Ancora un ritratto, in stile Delacroix, che raffigura Giovanna Battaglia Engelbert, direttrice creativa di Swarovski, influencer in quel genere di chic che Chiara Ferragni, pur nel suo genio, non raggiungerà mai, nonché musa di decine di stilisti: due anni fa insistette con Diego Della Valle perché incontrasse una seconda volta quel giovane americano dall’aria tanto compìta e l’immaginario scatenato, arrivando dove la head hunter Floriane de Saint Pierre, il Richelieu della moda, non era riuscita un anno prima (a quel punto Daniel aveva lasciato Thom Browne, era senza lavoro, viveva sui divani degli amici, accompagnava la mamma a fare shopping). Scorrendo, anzi “scrollando” ancora sull’account, si trova un acquerello iperrealista di fiori, opera della nonna, la pittrice Mary Reay, che “viveva e insegnava tecnica pittorica a Long Island” e che è la chiave di tutto: “Trovai il coraggio di rivelarmi alla mia famiglia, di lasciare il Texas, di dedicarmi alla moda, dopo aver letto il diario del suo unico anno di vedovanza. Iniziò a scrivere dopo la morte di mio nonno in un incidente d’auto. Avevano trascorso la vita insieme”.

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Nella famiglia Roseberry, la pratica della religione si alterna con quella dell’arte: pittura, principalmente, ma anche scultura e arti applicate. Insomma, il modello di famiglia di stampo ecclesiastico-eclettico che si ritrova nella storia della letteratura e dell’imprenditoria: i Bronte, per esempio, oppure le sorelle Austen. O ancora Nikola Tesla e i fratelli Wright. In questo anno pandemico, Daniel Roseberry ha intrattenuto la comunità modaiola con una serie di immagini straordinarie diffuse in luogo delle sfilate, pur sperando di poterle “riprendere appena possibile”. Da bravo figlio di pastore, sa che il valore processionale, anzi “cerimoniale della sfilata” è parte integrante della narrativa della moda e della sua stessa ragion d’essere. Il rito della condivisione di un momento emotivo: “Il sentimento di comunanza che si crea durante una sfilata è irriproducibile online”.

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Per tornare al punto uno della conversazione, quando il team di Lady Gaga ha chiamato lui, e nessun altro, sapeva di avere a che fare con qualcuno che ha introiettato le regole della rappresentazione e del climax spirituale dalla nascita. Che sa come si convoglia l’emozione e la si fissa attorno a un simbolo. E dunque, rieccoci alla colomba della pace con il ramoscello d’olivo nel becco, all’abito con la scultura dorata di un neonato da attaccarsi al seno e a Roseberry figlio del pastore anglicano. Che però, alla bisogna, sa anche essere tranchant. Lo dimostrò al momento della sua nomina, nell’aprile del 2019, quando si dichiarò “onorato di raccogliere il testimone dove madame Schiaparelli l’aveva lasciato qualcosa come ottantacinque anni fa”, che significava tirare una riga sui nomi che lo avevano preceduto nei molti tentativi di rilancio della maison dal 2007 a oggi: Christian Lacroix, Marco Zanini, Bertrand Guyon. In questo lungo lasso di tempo, la maison dev’essere stata uno di quei buchi neri in cui spesso finiscono le ambizioni degli industriali della moda quando tentano la strada perigliosa della haute couture, degli atelier con le ricamatrici pagate come direttori di banca, degli abiti a centomila euro, inarrivabilmente cari oggi come lo erano nel Cinquecento, perché se i tessuti meccanici di oggi costano sicuramente meno degli anni in cui si diceva che vestire una dama equivalesse ad armare una nave, non di meno le ore lavoro per tagliare, cucire, ricamare o applicare centinaia di borchie e paillettes a mano sono sempre le stesse; anzi, sono più costose.

 

Una mattina, mentre attendavamo di assistere a una delle tante collezioni scentrate a cui (Lacroix escluso che però curò solo una collezione-omaggio) hanno dato vita i creativi che hanno preceduto Roseberry, a nostra precisa domanda sui costi e le ragioni di un tale investimento Della Valle rispose con un gesto della mano, come a dire che nessuno sano di mente aprirebbe oggi un atelier di haute couture con la speranza di guadagnarci. Tranne alcuni, che hanno sviluppato modelli e forme facilissimi da riprodurre e da adattare anche al minuto, risparmiando dunque sugli studi di prototipia e la modellistica, tutti gli altri grandi nomi dell’alta moda sanno che la cosa migliore è inscriverne le spese a bilancio alla voce marketing, contare sugli applausi della stampa, sul grand train degli Oscar e della Biennale di Venezia e via. Sbaglieremo, ma qualcosa ci dice che quei gioielli di metallo dorato, quei nasi e quei copri-unghie da regina egizia arriveranno dove gli abiti restano inavvicinabili.

 

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