(foto EPA)

Lady Gaga e una poetessa fanno da cornice pop all'Inauguration day

Stefano Pistolini

Mai come in questa occasione la cerimonia è una questione delicata: non solo per le ovvie precauzioni e limitazioni imposte dal coronavirus. Ma perché costituisce l’occasione perfetta per una sovrapposizione di stili

Alla fine ci siamo. Tra tremori, timori e rigurgiti d’odio provenienti da quello che il magazine del New York Times ha chiamato “L’abisso americano” va in scena l’inaugurazione del ticket Biden-Harris, vincente alle presidenziali. Mai come in questa occasione la cerimonia è una questione delicata: non solo per le ovvie precauzioni e limitazioni imposte dal coronavirus, che incidono sul programma dell’evento, trasformandolo prevalentemente – al di là di quanto andrà in scena sul fronte ovest del Campidoglio – in un appuntamento videotrasmesso su tutte le tv e gli smartphone del pianeta. Il fattore sicurezza peserà poi molto, dopo il furente assalto dei supporter di Trump del 6 gennaio scorso, imponendo vigilanza e guardia alta in una Capitale presidiata come mai è stata prima, a fronte dei ripetuti allarmi che annunciano colpi di coda della fazione che ha ridotto la questione politica a un affare da saloon. Soprattutto, però, l’inaugurazione costituisce, al di là del senso istituzionale, procedurale e celebrativo, l’occasione perfetta per una sovrapposizione di stili appositamente predisposta per rimuovere l’impronta trumpiana che ha segnato l’ultimo quadriennio americano, sostituendola col new deal dell’Amministrazione entrante che, prima d’ogni altra cosa, ha l’ambizione di presentarsi come il gabinetto del sollievo, la brigata del buon governo e della nuova normalità, per un America psicologicamente collassata.

 

Dunque sorrisi e buonsenso, ottimismo e ragionevolezza, soft power ed evocazione di trascorsi clintoniani e obamiani, ancora vicini eppure così lontani. L’alchimia Biden-Harris in questa chiave funziona a meraviglia, proprio per i quozienti di familiarità, innovazione e soprattutto equilibrio che porta con sé e rappresenta. E questo dovrà essere il mood della messinscena inaugurale, dove fermezza, progettualità, ripartenza e inclusività saranno le parole d’ordine. E dove ciò che si ascolterà non farà che rilanciare questi concetti, aprendo quel complicato, azzardato procedimento di rimozione della diffusa cultura trumpiana, che costituirà la priorità della Casa Bianca, a ogni livello di comunicazione e di relazione. Perciò a mezzodì della fatidica giornata subentra l’America di Joe, quella con cui puoi parlare e confrontarti, quella che osserva e ascolta, quella che tiene sempre conto di tutti gli attori in commedia, o se non altro si premura di rassicurare al riguardo. Nell’occasione non ci sarà difficile intravedere i riflessi di quel politicamente corretto di cui ci eravamo quasi dimenticati, lo stesso che a lungo ci innervosì, ma che ha costituito una comfort zone piuttosto rimpianta, ultimamente. Una sensazione che probabilmente già verrà indotta dall’apparizione della 22enne poetessa laureata “junior” Amanda Gorman, afroamericana di Los Angeles, incaricata di comporre e recitare i versi adatti a “set the tone”, a stabilire l’atmosfera dell’evento, compito che in passato toccò a voci come Robert Frost e Maya Angelou. Il titolo del poema di Amanda è “The Hill We Climb”, la collina che scaliamo, e i suoi versi parlano di unità e speranza anche se, come racconta lei stessa, tengono anche conto della recentissima data della vergogna nelle sacre stanze di Washington: “Quel giorno mi ha dato l’energia per concludere la composizione. Perché la poesia non è cieca, non può ignorare l’evidenza della discordia”.

 

Quando arriverà il momento d’intonare l’inno nazionale “Star Spangled Banner”, il twist moderato ma pop che questa Amministrazione vuole esporre come proprio assumerà le sembianze di Lady Gaga, emblema di una femminilità libera, indipendente, fluttuante, creativa. Poi toccherà a J-Lo, Jennifer Lopez, fare musica per i convenuti come l’icona della fierezza multiculturale e di uno showbiz pronto a sintonizzarsi sul ritmo del tempo. Quindi gli alteri decani subentreranno a sovraintendere al giuramento, e sarà il pendant tradizionalista di Biden a prendere spazio, quello dedicato alla memoria e alle radici: toccherà al venerabile giudice della Corte Suprema John G. Roberts Jr officiare la cerimonia, mentre il reverendo Leo O’Donovan, già rettore della Georgetown University pronuncerà l’invocazione divina, Andrea Hall, vigilessa del fuoco afroamericano dalla Georgia e supporter della campagna di Biden, declamerà il giuramento di fedeltà alla bandiera e il pastore Silvester Beaman della Chiesa metodista episcopale Bethel di Wilmington, Delaware, si occuperà di benedire il consesso di notabili, nei panni del vecchio amico di famiglia del neo-presidente. Qui finisce la cerimonia in carne e ossa: il resto avrà formato digitale, con una composta rinuncia ai gran balli che fecero sognare l’America, quando Sinatra cantava per JFK e Jacqui, o Beyoncé fece danzare Michelle e Barack. Al loro posto un tv show di due ore, condotto da Tom Hanks, Eva Longoria e Kerry Washington, in cui si pronunceranno buoni sentimenti e ottimi propositi, indirizzati alla nazione in cerca di cure. Canteranno Justin Timberlake con Ant Clemons, Demi Lovato, Jon Bon Jovi, mentre da vari angoli della nazione si uniranno alla monumentale videoconferenza i Foo Fighters, John Legend e Bruce Springsteen. Per il resto, niente parate, ma ex presidenti ancora in vita schierati a rendere omaggio, tranne Jimmy Carter per motivi di anagrafe e Donald Trump per impegni pregressi. Obbligatorie le mascherine e la misurazione della temperatura. Il paese guarderà, chi sospirando, chi schiumando di rabbia. La mattina dopo si comincia. E il calendario, calcisticamente parlando, è subito tutto in salita.

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