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La deebaathificazione in America

Daniele Ranieri

Il Gop dopo la presidenza Trump alle prese con il problema delle guerre fallite: cosa fare con i perdenti pericolosi 

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Il Partito repubblicano in America è alle prese con una fase cruciale della sua esistenza che potremmo chiamare della debaathificazione, una parola che ci riporta indietro all’Iraq del 2003 quando Saddam Hussein fu cacciato dal potere e con lui il partito arabo Baath. Di colpo si pose il problema di cosa fare con tutti i baathisti ancora attivi nel paese, nella politica, nelle istituzioni, nell’esercito e ovunque: alcuni lo erano per fanatismo e altri per convenienza, alcuni erano una minaccia e altri aspettavano soltanto qualcuno che offrisse loro una via d’uscita. Una cosa non si poteva fare: fingere che non ci fossero. Ma nemmeno si poteva punirli e cacciarli tutti, erano troppi, erano una parte funzionante del paese. Quando alcuni baathisti capirono che sarebbero stati trattati con severità si unirono alle bande di fanatici che si andavano formando e divennero un pericolo peggiore. Questo è un problema urgente dei repubblicani – che non esisterebbe se ci fosse stata una transizione di potere regolare invece che settanta giorni di guerriglia legale e di propaganda culminati nell’assalto al Congresso. Ma la transizione regolare non c’è stata. Alcuni repubblicani erano inorriditi dal clamore degli assalitori che facevano irruzione al Campidoglio, altri li avevano incoraggiati fino a un paio di ore prima. Alcuni repubblicani condannano la deriva complottista di una parte degli elettori, altri la sfruttano. 

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Il Partito repubblicano in America è alle prese con una fase cruciale della sua esistenza che potremmo chiamare della debaathificazione, una parola che ci riporta indietro all’Iraq del 2003 quando Saddam Hussein fu cacciato dal potere e con lui il partito arabo Baath. Di colpo si pose il problema di cosa fare con tutti i baathisti ancora attivi nel paese, nella politica, nelle istituzioni, nell’esercito e ovunque: alcuni lo erano per fanatismo e altri per convenienza, alcuni erano una minaccia e altri aspettavano soltanto qualcuno che offrisse loro una via d’uscita. Una cosa non si poteva fare: fingere che non ci fossero. Ma nemmeno si poteva punirli e cacciarli tutti, erano troppi, erano una parte funzionante del paese. Quando alcuni baathisti capirono che sarebbero stati trattati con severità si unirono alle bande di fanatici che si andavano formando e divennero un pericolo peggiore. Questo è un problema urgente dei repubblicani – che non esisterebbe se ci fosse stata una transizione di potere regolare invece che settanta giorni di guerriglia legale e di propaganda culminati nell’assalto al Congresso. Ma la transizione regolare non c’è stata. Alcuni repubblicani erano inorriditi dal clamore degli assalitori che facevano irruzione al Campidoglio, altri li avevano incoraggiati fino a un paio di ore prima. Alcuni repubblicani condannano la deriva complottista di una parte degli elettori, altri la sfruttano. 

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L’ex presidente Donald Trump sabato e domenica ha fatto arrivare ai repubblicani del Congresso, attraverso il suo ex direttore politico alla Casa Bianca Brian Jack, un messaggio in due pezzi: sono ancora repubblicano e non ho intenzione di creare un terzo partito per farvi fuori dal punto di vista politico, ma chi voterà a favore della condanna contro di me nel processo di impeachment (cominciato lunedì) si aspetti conseguenze. Le conseguenze che minaccia Trump sono chiare a tutti, deputati e senatori: ha ancora un seguito enorme – secondo i sondaggi (fonte: Atlantic) un trenta per cento degli elettori repubblicani crede che Biden abbia perso – se decide di tormentare un politico specifico può rendergli la vita molto difficile. Per arrivare alla condanna di Trump serve che diciassette senatori repubblicani votino assieme ai democratici: è un numero difficile da raggiungere. A differenza del primo impeachment di un anno fa però, questa volta il partito non sta chiedendo compattezza e disciplina e sta lasciando molta libertà ai singoli.  Un senatore repubblicano, Rob Portman dell’Ohio, ha appena annunciato che non si ricandiderà nel 2022 e questo lo svincola dalla minaccia: può votare ciò che vuole durante l’impeachment. Vuol dire anche però che ci saranno delle elezioni primarie nel partito per decidere chi si candiderà al suo posto e potrebbero trasformarsi in una dimostrazione di superiorità schiacciante da parte dei trumpiani. 


Un altro pezzo di trumpiani che vogliono continuare la lotta è nei media e, secondo un articolo di Politico, vuole trasformare il briefing quotidiano con la stampa in un “campo di battaglia”. L’idea è quella di vendicarsi del trattamento ostile da parte dei grandi giornali come New York Times e Washington Post durante il mandato di Trump. Ci sono media mainstream conservatori, come il Gruppo Sinclair e il Daily Caller, ma anche frange cospirazioniste come Oan e Gateway Pundit. Se l’Amministrazione Biden li tratta come gli altri media, rischia fake news e complotti. Ma se li tratta in modo diverso rischia l’accusa di censura. 

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