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E non ditemi “allora Khamenei?”

Negare l’accesso a Twitter a chi mette in pericolo la società aperta è un atto di libertà

Giuliano Ferrara

Ma quale censura. Una piattaforma social è una società privata della comunicazione, come lo sono i giornali. La libertà di stampa non è pubblicare tutto, ma dare a tutti la possibilità di mettere su un giornale o un’impresa editoriale per esprimere opinioni contrapposte

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Una piattaforma come Twitter è un’impresa e una società privata della comunicazione. Anche i giornali lo sono. Twitter ti esclude, i giornali ti escludono, un tuo post è bannato o corretto con un avvertimento, il tuo account è sospeso, questo articolo non si pubblica, questa notizia è falsa o incendiaria, posso riportarla con un’avvertenza al lettore. C’è l’analogia, e come se c’è, ma imperfetta. Perché la piattaforma del web non nasce per selezionare e organizzare il mondo secondo i criteri di una borghesia illuminata, come con la stampa nel Settecento inglese, e in parte a seguire, si impone al contrario come una accessibilità universale e eguale, gratuita. L’avvento di questa formula ha reso il nostro contesto sociale più poroso, meno filtrato da una cultura selettiva, più vasto, eccezionalmente più vasto, e ancora più esposto a meccanismi di manipolazione commerciale, psicologica e se vogliamo anche politica (anche un po’ più schifoso, se vogliamo, ma su questo ora si può forse sorvolare).

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Una piattaforma come Twitter è un’impresa e una società privata della comunicazione. Anche i giornali lo sono. Twitter ti esclude, i giornali ti escludono, un tuo post è bannato o corretto con un avvertimento, il tuo account è sospeso, questo articolo non si pubblica, questa notizia è falsa o incendiaria, posso riportarla con un’avvertenza al lettore. C’è l’analogia, e come se c’è, ma imperfetta. Perché la piattaforma del web non nasce per selezionare e organizzare il mondo secondo i criteri di una borghesia illuminata, come con la stampa nel Settecento inglese, e in parte a seguire, si impone al contrario come una accessibilità universale e eguale, gratuita. L’avvento di questa formula ha reso il nostro contesto sociale più poroso, meno filtrato da una cultura selettiva, più vasto, eccezionalmente più vasto, e ancora più esposto a meccanismi di manipolazione commerciale, psicologica e se vogliamo anche politica (anche un po’ più schifoso, se vogliamo, ma su questo ora si può forse sorvolare).

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Non che i giornali, per continuare sul filo dell’analogia, non siano anche da sempre, almeno in parte, organi di manipolazione. Il giornalismo asettico alla Walter Lippmann, come avvertiva con intelligente sensibilità il compianto Christopher Lasch, è il canone stesso della manipolazione: tu giornalista o editore rinunci alla tua opinione, al tuo punto di vista, e diventi un esperto neutro, o ti pretendi ideologicamente tale, perché devi vendere le saponette o le scarpe, e il pubblico commercialmente definito deve essere il più ampio e penetrabile possibile, non è il lettore colto e adulto delle origini, è piuttosto il consumatore, l’utente della comunicazione moderna e postmoderna. La famosa scemenza sussiegosa del giornalista tradizionale che dice: il mio unico padrone è il lettore, non è solo una pietosa menzogna, visto che i padroni puri o impuri dell’editoria sono sempre esistiti, è anche un modo di definire il lettorato come un pubblico di compratori al quale si deve sempre dare ciò che essi desiderano.

 

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Cacciari nell’argomentare contro il potere di esclusione del privato Twitter dice scandalizzato che se vuoi un padrone, bè, lo avrai. In ogni campo, ma in particolare quando si tratta di organizzare informazione, cultura, conoscenza e altri veicoli decisivi di potere in una società di massa, oggi in primo luogo la comunicazione a distanza, un padrone c’è, bello e fatto, è nel tuo passato, nella situazione o struttura originaria, non è l’effetto della tua cupidigia di servilismo. Qui l’analogia raggiunge il suo culmine. E comincia il problema di distinguere razionalmente giudizi e concetti per non finire nello stupidario appena prodottosi sulla zampata di Jack Dorsey, che ha la barba simile alla mia, contro lo zampone di Donald Trump, che ha capelli molto diversi da quelli di Cacciari.

 

La Merkel, attraverso il suo portavoce, e vari commissari e ministri dell’Unione europea ci vanno con i piedi di piombo. Riconoscono che dietro alla decisione di Twitter contro il Potus c’è un problema, quello del sequestro del fiammifero al delinquente che si avvicina al bidone di benzina per dare fuoco alla casa comune, ma considerano problematica la decisione di una società privata, definita in un comunicato di stato un’oligarchia che non ha tutti i poteri o non dovrebbe averli, di intervenire sulla libertà di opinione. Che il colosso non particolarmente democratico dell’Unione, insomma il superstato, ce l’abbia su con il supertech, con i grandi della comunicazione che sono decisivi per le sorti della politica, bè, questo è ovvio. Ma distinguere resta necessario.

 

Cacciari, come i superstatisti, dice che ci vuole un’Authority statale, non può bastare un regolamento interno a una società privata e la sua interpretazione da parte dell’azionista, per procedere alla cassazione di un account, sia pure di un pericoloso sciamano con le corna come Trump. Non si rende conto che il senso della distinzione dovrebbe guidarlo e fargli pensare il vero: una decisione di stato, o di terzi decisi dallo stato, è quella sì una censura, una violazione di diritto, mentre negare l’accessibilità a Twitter a chi mette in pericolo imminente la società aperta è un atto di libertà e un privato che lo compie, anche se sospetto di monopolismo e istinti connaturali manipolatori, va elogiato per questo, e semmai castigato per il ritardo nella presa d’atto del rischio. Una decisione non assoluta, tra l’altro. Fuori di qui, va’ a straparlare su Parler. Una decisione che infatti può essere compensata, a parte il resto della grancassa, da una scelta alternativa, nella logica stessa che ti fa dire: la libertà di stampa non è pubblicare tutto, tutti i pezzi e tutte le opinioni, ma dare a tutti la possibilità di mettere su un giornale o un’impresa editoriale per esprimere opinioni contrapposte. (Non parlo di quelli che dicono: e allora Khamenei?, perché è evidente che l’argomento non prova alcunché. Si battano per tagliare la voce ai dittatori e agli altri incendiari, che poi si ritrovano su qualche cesso di nuovo social come Parler, invece che per ridarla a chi ha incitato gli americani, con una tecnica di colpo di stato tutta mediatica, a distruggere le basi della loro democrazia civile, liberale).

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