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Gibilterra e il paradosso nazionalista

Guido De Franceschi

Che amara sorpresa per i brexiteers scoprire che i territori di Sua Maestà sono meno british

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In Scozia e in Irlanda del nord gli ultrà della britishness cercano da sempre di stringere i bulloni che tengono uniti tra loro i territori di Sua Maestà resistendo alle spinte separatiste. Eppure, in seguito agli accordi tra Londra e Bruxelles, uno dei primi paradossali effetti della real Brexit, “reale” come lo fu il socialismo sovietico, sembra essere l’allentamento dei legami con il resto del Regno Unito proprio in quelle regioni in cui la devozione per la Regina era già meno fervente. Ma ora perfino Gibilterra, i cui abitanti si sentono orgogliosamente cittadini del Regno Unito, rischia di diventare più spagnola (cioè: più europea) che mai.  

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In Scozia e in Irlanda del nord gli ultrà della britishness cercano da sempre di stringere i bulloni che tengono uniti tra loro i territori di Sua Maestà resistendo alle spinte separatiste. Eppure, in seguito agli accordi tra Londra e Bruxelles, uno dei primi paradossali effetti della real Brexit, “reale” come lo fu il socialismo sovietico, sembra essere l’allentamento dei legami con il resto del Regno Unito proprio in quelle regioni in cui la devozione per la Regina era già meno fervente. Ma ora perfino Gibilterra, i cui abitanti si sentono orgogliosamente cittadini del Regno Unito, rischia di diventare più spagnola (cioè: più europea) che mai.  

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Al di là di tutti i risvolti tecnici, il fenomeno politico e sociale che ha condotto alla Brexit è stato incarnato e animato – stomaco e cuore, trippe e ideali – da chi, non accontentandosi della guida a destra e di un sistema metrico a parte, aveva preso quantomeno in considerazione la possibilità di votare un movimento che si chiamava, con una sfumatura grottesca, United Kingdom Independence Party, e sognava che l’union jack sventolasse gagliardamente in ogni più remoto angolo del regno, senza più essere scortata da quelle dodici stelline gialle in campo blu. Eh sì, la Brexit è stata incarnata e animata (anche) dai nazionalisti. Eppure, proprio per dei risvolti tecnici, derivanti dalla necessità di trovare un accordo con Bruxelles, la vittoria identitaria dei brexiteers ha avuto come primo effetto collaterale l’indebolimento del Regno Unito.

 

L’Irlanda del nord, dal punto di vista commerciale e degli spostamenti, è aperta come prima (o quasi) verso la Repubblica d’Irlanda, perché il ricordo di decenni di violenze ha suggerito a tutti prudenza davanti al rischio di ostacolare l’unione di fatto dell’isola (senza contare che a Bruxelles il governo di Dublino ha ormai la voce in capitolo che quello di Londra non ha più voluto avere). Ma il mantenimento, in sostanza, dello status quo in Irlanda ha fatto sì che qualche barriera legislativa sia stata invece eretta tra l’Ulster e la Gran Bretagna – acuendo così la separatezza dal resto del Regno Unito non soltanto dei cattolici (che ne sono arcicontenti) ma anche degli unionisti protestanti. Anche in Scozia il contraccolpo della Brexit è potenzialmente devastante per la coesione del Regno Unito. Infatti, proprio proclamando il desiderio degli scozzesi di tornare in Europa, la premier del governo devoluto di Edimburgo, Nicola Sturgeon, chiede un secondo referendum di indipendenza. E, nei sondaggi, i “sì” non sono mai stati così tanti.

 

Se un Regno Unito che allontana da Londra gli unionisti di Belfast e che offre combustibile propagandistico agli indipendentisti scozzesi non è la più formidabile immagine di un paese reso più forte dalla liberazione dal giogo europeo, il caso di Gibilterra è ancora più imbarazzante per i brexiteers. I circa trentamila abitanti di quell’anomalia geografica che nel 1704 è caduta dalla tasca della Guerra di successione spagnola sono fortissimamente legati al Regno Unito. Ancora nel 2002, in un referendum, i “no” all’ipotesi di una sovranità condivisa da parte di Londra e di Madrid furono il 98,97 per cento. Ma i gibilterrini, oltre che al Regno Unito, sono fortissimamente legati anche al buon senso e sanno che cosa vuol dire, specie per una enclave, una frontiera chiusa, visto che Francisco Franco sigillò il confine tra Spagna e Gibilterra nel 1969 (fu riaperto a metà degli anni Ottanta): per questo lì, nel referendum sulla Brexit, il remain vinse con il 95,9 per cento. La principale fonte di reddito di Gibilterra è il turismo, che passa in larga parte per il confine con l’Andalusia. Ogni giorno 15 mila lavoratori frontalieri (circa 10 mila dei quali di nazionalità spagnola) entrano a Gibilterra. E gli abitanti della Rocca trovano molti servizi solo al di là del confine, che gli spagnoli chiamano pudicamente, anche nei documenti ufficiali, “la Verja” (la cancellata), per indicare che loro non riconoscono l’appartenenza a Londra della porzione di istmo su cui si trova la dogana (e, a dirla tutta, l’appartenenza a Londra dell’intera Gibilterra).

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Gli accordi complessivi sulla Brexit escludono esplicitamente Gibilterra, per cui bisognerà trovare un deal particolare. Madrid ha appena messo un ultimatum per il 31 dicembre: altrimenti, Gibrexit dura. Ma, mentre il chief minister dell’enclave sullo Stretto, Fabian Picardo, posta su Twitter allusive foto di cupe nuvolaglie e di schiarite dopo la tempesta, è pressoché certo che l’accordo sarà, prima o dopo il 31 dicembre, un’apertura di Gibilterra verso la Spagna, l’Europa e l’area Schengen più che verso Londra.

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