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Fuori come sarà - 2021

Il quinto atto di Donald Trump

Quattro anni fa l'America si è concessa a questa figura circense. Adesso la domanda è: cosa farà? Come reagirà alla sua chiamata alle armi, quando Biden comincerà a parlare un’altra lingua e a proporre un altro stile alla Casa Bianca?

Stefano Pistolini

Dopo il 20 gennaio il presidente uscente probabilmente sceglierà l'esilio, per fantasticare sul peso della sua assenza, come un re Lear impazzito perché i sudditi non l'hanno amato quanto meritava. Parla di ricanditatura, ma il suo destino ha un appuntamento molto vicino in Georgia

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The Trump-after. I fattori “ridimensionamento” e “Donald Trump” troveranno mai il modo di conciliarsi? Questo finale di partita ha tinte forti, sobbalzi, melodrammi sottotraccia e prospettive cupe. Quasi siano, oltre che i segni di un epilogo, il sintomo di un disordine strisciante, pronto a indebolire il corpo sociale americano, provato com’è da lunga malattia.

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The Trump-after. I fattori “ridimensionamento” e “Donald Trump” troveranno mai il modo di conciliarsi? Questo finale di partita ha tinte forti, sobbalzi, melodrammi sottotraccia e prospettive cupe. Quasi siano, oltre che i segni di un epilogo, il sintomo di un disordine strisciante, pronto a indebolire il corpo sociale americano, provato com’è da lunga malattia.

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Con gli ultimi colpi di coda, il dibattersi del presidente contro l’esito del voto del 3 novembre sta trovando pace, almeno in apparenza. Deve rassegnarsi: le pretese d’imbroglio non hanno fondamenta. I tribunali, uno per volta, hanno certificato la regolarità delle elezioni. In poche ore, cinque corti di giustizia, in altrettanti stati, hanno respinto le ultime presunzioni legali. Un giudice del Wisconsin ha corredato il verdetto con un freddo commento: "Questa è una strada pericolosa da percorrere". La Corte Suprema non ha neanche alzato il sopracciglio di fronte agli appelli trumpiani. Perfino l’irriducibile leader dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, ha ammesso che il risultato è definitivo. Donald si metta l’anima in pace. E lavori verso la transizione dei poteri, in programma tra meno di un mese. Lui ha giocato a golf compulsivamente per qualche giorno e poi si è proiettato in Georgia a dare il contributo presidenziale a quel ballottaggio che conta davvero per l’America, perché renderà il Senato rosso o blu, amplificando o riducendo lo spazio di manovra di Biden e dei suoi. Perciò Trump si è rimesso a fare comizi, stavolta per appoggiare i candidati David Perdue e Kelly Loeffler, continuando a pronunciare litanie sulla vittoria rubata, sfiorando il patetico, ma vincendo i cuori dei sostenitori inveterati. Intanto quelli del suo seguito hanno cominciato a organizzare la resa concordata, levandosi di torno il più presto possibile, verso nuovi lidi occupazionali e mettendo più spazio possibile tra loro e il presidente agonizzante. Così va il mondo. Gli habitué della Casa Bianca sussurrano di un Trump rabbioso, illogico nei furori, più un dittatore defenestrato che un normale leader democratico a fine mandato.

   

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Si racconta che Franklin D. Roosevelt, spinto dall’influente editorialista Walter Lippmann, considerò l’ipotesi di assumere poteri assoluti verso l’inizio della sua prima amministrazione – ma fu solo un baleno, immediatamente rimosso. Secondo il biografo Seymour Hersh, anche Richard Nixon, sull’orlo del baratro-Watergate, contemplò un progetto di colpo di stato per mantenere il potere. Il Segretario alla Difesa James Schlesinger, al corrente della cosa, fece in modo di depotenziare la catena di comando di Nixon, che poi si accontentò di un mansueto commiato. Anche Trump, come Nixon, durante il suo quadriennio ha cercato d’ingraziarsi i militari, rimpinzando il governo di generali. Ma alla fine è rimasto solo a fare i conti con la propria ira, sprovvisto com’è della disciplina necessaria per ordire un complotto. Bob Woodward, che raccontò le cronache degli ultimi giorni di Nixon, in "Fear: Trump in the White House" paragona le paranoie di questi due presidenti e adesso, nelle ultime interviste, minimizza il valore del Trump alle corde: "È arrabbiato per aver perso e farà dilagare i suoi rancori ovunque", sostiene, "poi salvaguarderà il suo unico interesse: se stesso".

  

Intanto, nell’abbozzare una tattica difensiva, il presidente si sta preoccupando che i membri dello staff non scrivano libri o rilascino interviste lesive alla sua reputazione, come del resto da poco su Fox ha fatto Brad Parscale, già mago digitale della sua elezione nel 2016, poi cacciato con ignominia nel 2020, dopo il fiasco del raduno di Tulsa. Nel complesso, sembra un teatro dell’assurdo. Del resto cosa c’è stato di normale nei quattro anni di questa presidenza? Cosa, se non la costanza dell’irrealtà? Gli insider raccontano di come Trump ora si abbandoni a interminabili tirate autocelebrative, chiedendo ai malcapitati presenti conferma dei propri meriti, ad esempio riguardo a un mercato che dà segni di ripresa, ovviamente escludendo che la cosa abbia a che vedere con l’avvento di Biden. Non è così, sostiene Trump, per un motivo semplice: le elezioni le ha vinte lui, prima che gli venissero rubate. E via col delirio o, se volete, con questa grottesca corsa del topo.

  

Eppure milioni di americani non smettono di ammirare Donald Trump, anche adesso, nella disfatta. Non rinunciano a identificarsi con lui, a denunciare l’incomprensione che l’avrebbe abbattuto. Imboccano le autostrade per Washington, scendono a reclamarlo nelle strade e sono dalla parte della sua ostinazione, della sua sfiducia nei meccanismi della nazione. Questa moltitudine, che tradotta in voti vale poco meno di metà del corpo elettorale, ora è in attesa: vuole vedere le prossime mosse di Trump, capire dove canalizzerà la sua dirompente energia. Se tralascerà le boutade (pare si sia perfino detto interessato a una nuova edizione di “The Apprentice”) sono pronti a seguirlo, perché ormai è chiaro che il sentimento di rabbia intollerante che ingolfa quest’uomo fino all’irragionevolezza, è condivisa da milioni di connazionali, insofferenti come lui verso tutto – eppure al tempo stesso orgogliosi d’essere americani, ma americani nell’altro modo, quello che stavolta non sono riusciti a concretizzare, ma che non è detto riescano a rilanciare il giorno che Trump tornerà a essere il comandante d’America.

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Perché in un questo scenario c’è un altro fattore che ha un peso sostanziale: i quattrini. I quattrini indispensabili per nutrire ambizioni politiche, oggi in America. Infatti, all’indomani dell’esito negativo del voto del 3 novembre, dalla organizzazione elettorale di Trump è partita una pressante campagna di rifinanziamento battezzata “Save America”, motivata da uno scopo dichiarato: aiutare il presidente sconfitto con la frode a “difendere l’integrità del voto”. Una pioggia di e-email e sms ha investito il target dei sostenitori e i soldi sono piovuti in quantità spropositata: in poche settimane si è generato un nuovo tesoro di 200 milioni di dollari che, una volta archiviato l’esito dell’elezione del 3 Novembre, sono rimasti a disposizione della organizzazione per scopi elettorali, con l’unica condizione di non poter ripagare i debiti accumulati in precedenza e con una percentuale da versare al partito repubblicano. E’ a quel punto che Trump ha spavaldamente ricominciato a parlare di una nuova possibile candidatura. Senza contare che attingendo a quello stesso forziere, che non smetterà di alimentarsi, potrà anche sostenere la probabile corsa della figlia Ivanka per un seggio senatoriale in Florida, nel 2022. Notizie ottime, che però impallidiscono di fronte alla portata del debito accumulato da Trump per finanziare l’ultima campagna elettorale: 420 milioni di dollari, di cui 340 dovuti alla Deutsche Bank, con cambiali che cominceranno a scadere tra due anni, a garanzia delle quali Trump ha posto le sue proprietà. Elementi che aiutano a capire come restare in primo piano sulla scena politica, laddove i soldi corrono, sia per lui la migliore opzione possibile, se non l’unica. Anche perché una volta fuori dalla Casa Bianca, Trump non potrà più contare sullo scudo protettivo dalle probabili incriminazioni che lo attendono e, per quanto lui si dica certo di poter concedere il perdono a se stesso, la procedura riguarderà i soli crimini federali e non le accuse mosse dai singoli Stati, a cominciare da quello di New York, dove lo aspettano le questioni fiscali più roventi.

   

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In un libro scritto da Wayne Barrett trent’anni fa e dedicato alle prime gesta di Donald, (“Trump: The Greatest Show on Earth: The Deals, the Downfall, the Reinvention”) si racconta di come il futuro presidente restò impressionato dalla rovinosa caduta di Jimmy Carter nel 1980, rispedito a casa dopo un mandato e condannato allo stesso anonimato di un viaggiatore di commercio. Per Trump fu una lezione memorabile sul tema del fallimento, che gli valse il principio di non mollare mai e, in caso di sconfitta, tornare negli spogliatoi invocando la rivincita e promettendo sconquassi. Che è ciò che sta facendo adesso, negando l’evidenza, anzi, cancellando la realtà. Un atteggiamento che potrebbe spingerlo, il 20 gennaio, a disertare il passaggio di consegne con Biden, stabilendo un altro record di originalità: nessun presidente uscente, tra quelli arrivati vivi all’Inaugurazione, si è mai permesso di perpetrare un affronto del genere alla democrazia americana. Eppure il deprecabile gesto di Trump potrebbe piacere all’America incavolata. Anzi, potrebbe diventare il kickoff di una crociata di riappropriazione: riprendersi ciò che è suo, che è loro, dei suoi seguaci, in quel fomentarsi a vicenda, vagheggiando la fantasia della vecchia, meravigliosa America d’una volta. Quella che a tutti loro sembra proprio di ricordare.

   

    

Così scorrono gli ultimi giorni in ufficio di Donald. Tra un tweet e l’altro, sprazzi di malinconia, disinteressandosi delle scottanti questioni sul tavolo, a cominciare da una pandemia arrivata a fare tremila morti al giorno - l'equivalente dell’attacco alle Torri Gemelle. Più che agli impegni dell’agenda, Trump, come il despota senza futuro, dedica attenzione a premiare i fedelissimi, proteggere i familiari, castigare chi l’ha tradito. Nel mirino ci sono fior di governatori repubblicani e l’intera struttura di Fox News, per anni il suo megafono e ora in testa alla sua lista nera. Perché ormai il presidente si è allineato con fonti informative ancora più urlanti, come One America News Network, o addirittura coi teorici della cospirazione di QAnon, quelli convinti che il mondo sia governato da una cabala di pedofili adoratori di Satana, ovviamente anti-Trump. Gente che, secondo lui, "fondamentalmente crede nel buon governo". Unica concessione alle questioni domestiche, Trump pare impegnato in una rincorsa senza precedenti alle esecuzioni capitali. Dal 14 luglio, quando il ministro della Giustizia Barr ha riavviato le esecuzioni con quella di Daniel Lewis Lee, l'amministrazione ha mandato a morte dieci persone. E altre tre esecuzioni sono in programma per i giorni che precedono l'inaugurazione di Biden, come sinistro farewell tour trumpiano.

  

La tenuta di Mar-a-Lago in Florida pare destinata a essere il buen retiro dove Trump si chiuderà a organizzare il ritorno. Poi, certo, c’è New York e le sue mille luci, adesso tutte spente, ma è probabile che fin quanto il Covid detterà le regole di comportamento, Donald girerà alla larga dalla città che considera l’unico palcoscenico degno di lui. A tempo debito, quando la buona società tornerà dai rifugi agli Hamptons dove sta passando ‘a nuttata, anche lui produrrà la rentrée tra i miliardari, veri o presunti, e riprenderà domicilio nella torre d’oro che porta il suo nome. Adesso meglio l’esilio, meglio fantasticare sul peso della sua assenza e lasciar rimarginare la ferita, come un re Lear impazzito perché i sudditi non l’hanno amato quando meritava. Jeffrey Wilson, docente di letteratura ad Harvard, ha scritto un brillante libro sulle connessioni tra “Shakespeare and Trump”, sottolineando come a questo punto ci si trovi “al classico quinto atto, in cui il tiranno è rinchiuso nel castello a rosicare come un dannato, sentendo il potere sfuggirgli e soppesando la misura del tradimento”.

  

Per lui, l’urgenza ora è mettersi in salvo. Le prossime giornate saranno turbolente, ci sarà chi chiederà la sua testa, o perlomeno una copia delle sue ultime denunce dei redditi – problema non da poco, se il team al suo servizio non gli suggerirà una via di fuga per sfuggire all’orda pronta a sbranarlo. Altrimenti, come disse il predecessore Henry Adams, occhio ai rischi della pesante caduta: “Mi aspettavo il peggio ed è andata peggio di come m’aspettavo”. Dunque nessuna concessione alla cavalleria: solo strategie di uscita, motivazione delle truppe e atteggiamento sprezzante verso chiunque si frapponga tra lui e i suoi disegni, a cominciare da quell’incidente di percorso chiamato “Joe Biden”, col quale Trump non si è mai complimentato per la vittoria. Un pessimo esempio se, come scrive il Washington Post, tra i deputati repubblicani al Congresso solo 27 su 249 hanno riconosciuto subito il successo di Biden, e poi qualche altro alla spicciolata, subito ribattezzati da Trump RINOS, ovvero Republicans In Name Only, repubblicani solo di nome, come se lui lo fosse mai stato di fatto, messo al confronto coi princìpi fondativi del conservatorismo americano. Per Trump è sempre “con me o contro di me”, non esiste l’ipotesi di una riflessione, solo fragorosi slogan, svergognando i media come responsabili della sua rovina - il che è plausibile, dal momento che il racconto della verità è il compito dell’informazione.

  

Adesso la domanda è: cosa farà l’America? Come reagirà alla chiamata alle armi di Trump, quando Biden comincerà a parlare un’altra lingua e a proporre un altro stile alla Casa Bianca? Il problema è di ordine psicologico: chi ha ancora voglia di rumore, d’instabilità, di discordia e di odio nella provatissima America-2021? Chi ha ancora voglia di fronteggiarsi e disprezzarsi, di maledire e di dividere? Quali sono i numeri di questa intransigenza, di questo negazionismo verso il confronto delle idee, dopo che perfino quelli di Facebook e Twitter hanno sbattuto la porta in faccia a Trump, bollandolo come pericoloso bugiardo patologico?

 

Mentre il solito Wilson, lo studioso shakespeariano, profetizza che "Ci stiamo avvicinando alla fine della messinscena ed è qui che arriva sempre la catastrofe", quel che è certo è che la parabola di Trump resterà comunque a lungo con noi, come racconto esemplare del becero personaggio arrivato chissà come fino alla porta dello Studio Ovale e dell’imprudenza di un popolo che gliene ha consegnato le chiavi. Perché l'America che ha amato tanti suoi presidenti e ne ha alimentato il culto, quattro anni fa si è concessa spericolatamente a questa figura circense, che nemmeno Mark Twain avrebbe saputo inventare. E le motivazioni profonde della scelta sono ancora tutte da chiarire.

  

A breve, comunque, il destino di Donald Trump passerà per la Georgia. Là dovrà dimostrare d’essere ancora capace di trascinare, di motivare e alla fine di attribuire il Senato ai repubblicani e le Camere divise al suo successore. Un passaggio sostanziale. E una verifica del suo valore, del suo peso specifico in termini psicologici, ben prima che del suo impatto politico. Una spedizione che potrebbe donargli una nuova, insperata occasione. Rilanciarlo, ancora una volta, tra le luci della ribalta. Oppure consegnarlo definitivamente alla solitudine del perdente. Dove finirebbe circondato da attori nefasti, intenzionati a sfruttarne le ultime disperate sortite, nel ruolo del condottiero di quella loro ringhiosa, famelica contro-America. 

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