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A dieci anni dalla sua primavera, Tunisi è oggi il rifugio degli attivisti

Arianna Poletti

“Se non puoi raggiungere l’Europa non hai altre alternative: ti rimane solo qui”. Racconti di resistenze contro i regimi

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Tunisi. Il ricordo della rivoluzione ha un sapore amaro per la generazione di Avenue Bourguiba. L’entusiasmo ha lasciato il posto al disincanto, mentre la peggiore crisi economica dai tempi dell’indipendenza mette alla prova le istituzioni della democrazia in costruzione che è la Tunisia.

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Tunisi. Il ricordo della rivoluzione ha un sapore amaro per la generazione di Avenue Bourguiba. L’entusiasmo ha lasciato il posto al disincanto, mentre la peggiore crisi economica dai tempi dell’indipendenza mette alla prova le istituzioni della democrazia in costruzione che è la Tunisia.

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Ma il movimento di protesta tunisino che dieci anni fa diede il via a quelle che sarebbero diventate le Primavere arabe non è andato smarrito: i protagonisti della rivoluzione ricompaiono dieci anni dopo tra le associazioni e i collettivi che danno vita alla società civile. Vista con gli occhi di chi oggi constata il fallimento della propria rivoluzione, la democrazia tunisina resta però un modello. Fragile, vacillante, incompleta, ma pur sempre un passo avanti rispetto al passato.

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Così pensa Nizar, celebre attivista egiziano, che anche all’estero si presenta con un nome falso per timore dei servizi. “Appena atterrato a Tunisi, mentre il taxi mi portava dall’aeroporto all’hotel, sono passato accanto a una manifestazione. Non c’era molta gente, ma striscioni, cori e canti mi hanno riportato indietro nel tempo”, racconta al Foglio. Come buona parte dei militanti di piazza Tahrir, anche Nizar è finito nel mirino dell’apparato di sicurezza del presidente egiziano Abdul Fateh al Sisi. Oppositore politico fin dal 2008, è una delle menti del movimento del 6 aprile, protagonista delle prime rivolte contro il regime di Hosni Mubarak.

 

Dal 2016 risiede nella capitale tunisina, da dove continua a lavorare per un’associazione della diaspora egiziana con sede in Europa, che fornisce assistenza legale alle vittime e stila rapporti sulle violazioni dei diritti umani in Egitto. Nizar ha lasciato il Cairo dopo l’arresto di cinque colleghi della sua cerchia più stretta. E assicura: “Ero il prossimo”. In fretta e furia ha chiesto un visto per poter uscire dall’Egitto. Il motivo ufficiale: un viaggio di lavoro. Viaggio da cui però, per timore di essere arrestato, non è mai rientrato. “Mantengo un basso profilo per poter continuare a lavorare senza causare ulteriori problemi alla mia famiglia. Una dopo l’altra, le persone che frequentavo al Cairo si sono ritrovate in cella”, racconta abbassando la voce seduto in un caffè del porto di Tunisi.

 

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Il contratto stipulato con l’associazione per cui lavora ha permesso a Nizar di ottenere un permesso di soggiorno e rimanere regolarmente nel paese. Accanto a lui siede Mohamed, che è riuscito a lasciare il Cairo poche settimane prima dell’ondata di arresti del settembre 2019. Leader di un movimento studentesco attivo durante la rivoluzione, fin dal suo arrivo si è integrato nella società civile locale. E’ più pessimista sul futuro della democrazia tunisina: “Qui i dibattiti parlamentari camuffano problemi strutturali e la questione sociale non è stata risolta”. La voce tremante, Mohamed racconta di essere un amico intimo di Patrick Zaki. Saputo del suo arresto avvenuto appena posato piede all’aeroporto del Cairo di rientro dall’Italia, Mohamed ha capito che non sarebbe più rientrato in Egitto. Preferisce non nascondersi dietro a uno pseudonimo perché sa che non basterebbe a proteggerlo: “Un attivista egiziano non è mai al sicuro, neanche all’estero”.

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Condividono lo stesso sentimento di insicurezza alcuni attivisti siriani presenti nella capitale tunisina, che a differenza di Mohamed non vogliono rendere pubblica la propria testimonianza. “Quando non puoi raggiungere l’Europa non hai molte altre alternative: ti rimane solo Tunisi”, taglia corto una militante arrivata anni fa passando dal Libano. La comunità egiziana e quella siriana sono in continua crescita nel paese, anche se l’obbligo di visto spesso complica le cose. “Con la scusa del Covid-19 viene impedito a molti egiziani di partire. Esiste una lunga lista di attesa verso la Tunisia”, fa sapere Bassem Trifi della Lega tunisina per la difesa dei diritti umani.

 

C’è invece chi prova a varcare illegalmente le frontiere per richiedere l’asilo: i siriani rappresentano la prima nazionalità per numero di rifugiati in Tunisia (1.031 nel 2019 secondo l’Unhcr). Qualunque sia la loro provenienza, gli attivisti politici presenti a Tunisi sono certi di poter contare sulla fitta rete della società civile, capace di opporsi alle autorità se necessario. E’ il caso di Ahmed, originario del Sahara occidentale, che ha rischiato di essere espulso dalla Tunisia su richiesta delle autorità di Rabat. Grazie all’intervento di diverse associazioni locali continua invece a vivere nella capitale sotto protezione dal 2018. “Tunisi è la mia unica alternativa, un luogo di ritrovo per tanti militanti della diaspora araba che condividono storie di repressione”, racconta.

 

In quanto nordafricano, Ahmed ha potuto appoggiarsi al programma Pan-African Human Rights Defenders Network, fondato a Kampala (Uganda) per garantire un sostegno economico, medico e psicologico agli attivisti perseguitati dai rispettivi regimi, accolti in città sicure. Da tre anni Tunisi è stata inserita nell’elenco delle “hub cities”, le capitali che aprono le porte ai difensori dei diritti umani del continente africano. Ogni macroregione ha una città di riferimento, Tunisi lo è per il nord Africa. Khadija Ben Nasser, coordinatrice del progetto, spiega come funziona la procedura: “Un attivista difensore dei diritti umani ci invia una domanda di protezione. Dopo un colloquio e le necessarie verifiche, con un pretesto lo invitiamo in Tunisia. Qui riceverà sostegno economico, medico e psicologico per un periodo di sei mesi”. Chi necessita di più tempo viene informalmente inserito in programmi di studio o di lavoro, così da ottenere il permesso di soggiorno. “Al progetto hanno aderito principalmente attivisti egiziani e marocchini, ma siamo aperti anche a richieste provenienti da Algeria e Libia”, dice Bassem Trifi della Lega tunisina, principale partner del network panafricano.

 

Dal 2011 la Tunisia accoglie attivisti provenienti dai due paesi confinanti senza bisogno di visto. “Mentre sotto Gheddafi i perseguitati politici fuggivano verso l’Europa e il Nord America, dopo la rivoluzione la Tunisia è diventata la meta privilegiata dei libici: nel 2011 i gheddafiani, nel 2014 un importante gruppo di attivisti e militanti”, conferma Alice Alunni, ricercatrice sulla diaspora libica a Tunisi per l’università di Durham. A causa della guerra, sei anni fa le principali organizzazioni locali e internazionali operanti in Libia hanno trasferito la propria sede nella capitale tunisina, trascinandosi dietro una parte importante della società civile.

 

A Bengasi, dove spadroneggia il generale Haftar, il 10 novembre è stata uccisa per strada Hanane al Barassi, avvocato e militante per i diritti delle donne. Per Libya Idris, giornalista libica in Tunisia dal 2015, “sono sempre di più le attiviste nel mirino delle milizie che scelgono di stabilirsi a Tunisi”. L’atteggiamento neutrale portato avanti dal governo tunisino, che evita di prendere posizione, rende possibile la presenza sul territorio di attivisti provenienti dall’insieme del mondo arabo. L’avvocato Bassem Trifi non ha dubbi: “La rivoluzione ha reso Tunisi una città rifugio. Prima del 2011 eravamo noi i perseguitati. Tante organizzazioni per la difesa dei diritti umani ci hanno sostenuto, oggi rendiamo il favore”.

 

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