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La terza via di Biden in Cina è fatta di tre mosse e una certezza

Luciana Grosso

Secondo Axios, il presidente eletto potrebbe nominare Pete Buttigieg come ambasciatore a Pechino. Le altre scelte

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“A time to heal”. Joe Biden lo aveva detto fin da subito che gli anni della sua presidenza sarebbero stati un tempo per guarire, lenire, ricucire. Così, oggi, Biden, si ritrova a dover riparare non solo i cocci dell’America divisa dal trumpismo, ma anche a dover raccogliere e dare un senso alle macerie che circondano l’America. Quattro anni di trumpismo, di tweet, di sfottò, di dazi, di consolati chiusi e sgarbi istituzionali hanno isolato il paese, circondandolo di nemici invece che di alleati e competitor. Tra i rapporti più compromessi, eppure strategici, c’è quello con la Cina, un paese con cui gli Stati Uniti non sono mai andati particolarmente d’accordo ma con cui è sconsigliabile andare allo scontro. “Negli anni della presidenza Trump – scrive la Bbc – i rapporti tra America e Cina sono arrivati al loro punto più basso dai tempi di Nixon”. Ora, da questo punto basso, Biden deve ripartire. Per farlo ha davanti a sé due opzioni: o continuare nel solco del trumpismo, proseguendo con lo scontro frontale a colpi di dazi, minacce e provocazioni, per dare una dimostrazione di forza che oggi gli Stati Uniti hanno di meno. Oppure può fare una precipitosa marcia indietro, togliere i dazi, dire alla Cina di fare come se non fosse successo niente, e dare una dimostrazione di debolezza americana che non corrisponde, nemmeno oggi, alla realtà.

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“A time to heal”. Joe Biden lo aveva detto fin da subito che gli anni della sua presidenza sarebbero stati un tempo per guarire, lenire, ricucire. Così, oggi, Biden, si ritrova a dover riparare non solo i cocci dell’America divisa dal trumpismo, ma anche a dover raccogliere e dare un senso alle macerie che circondano l’America. Quattro anni di trumpismo, di tweet, di sfottò, di dazi, di consolati chiusi e sgarbi istituzionali hanno isolato il paese, circondandolo di nemici invece che di alleati e competitor. Tra i rapporti più compromessi, eppure strategici, c’è quello con la Cina, un paese con cui gli Stati Uniti non sono mai andati particolarmente d’accordo ma con cui è sconsigliabile andare allo scontro. “Negli anni della presidenza Trump – scrive la Bbc – i rapporti tra America e Cina sono arrivati al loro punto più basso dai tempi di Nixon”. Ora, da questo punto basso, Biden deve ripartire. Per farlo ha davanti a sé due opzioni: o continuare nel solco del trumpismo, proseguendo con lo scontro frontale a colpi di dazi, minacce e provocazioni, per dare una dimostrazione di forza che oggi gli Stati Uniti hanno di meno. Oppure può fare una precipitosa marcia indietro, togliere i dazi, dire alla Cina di fare come se non fosse successo niente, e dare una dimostrazione di debolezza americana che non corrisponde, nemmeno oggi, alla realtà.

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Probabilmente Joe Biden, sceglierà una terza via. Da quel che si legge controluce dalla filigrana delle prime mosse del presidente eletto nei confronti della Cina, si può azzardare un’ipotesi su come cambieranno le cose tra Washington e Pechino: da un lato rimarrà il protezionismo e gli Stati Uniti si impunteranno su temi per loro imprescindibili come il rispetto dei diritti umani (le questioni Hong Kong e Xinjiang  su tutte) e quella dell’ambiente; dall’altro però prenderanno a trattare la Cina come un competitor (o persino come un nemico) all’altezza degli Stati Uniti, con toni e temi adatti a uno scontro di potenze. A far pensare che sarà questa la direzione della policy cinese di Biden sono, su tutte, tre nomine.

 

La prima è quella (non ancora ufficiale, è una indiscrezione del sito Axios) di Pete Buttigieg, per il ruolo di ambasciatore a Pechino. Una scelta del genere avrebbe vari punti di caduta, in politica interna ed estera: secondo Axios, la nomina va letta sulla base del fatto che dopo la più che dignitosa prova delle scorse primarie, Buttigieg  prima o poi vorrà correre ancora per la Casa Bianca e la sua nomina a Pechino potrebbe rafforzarne la credibilità, il prestigio e l’esperienza (anche Bush senior era stato ambasciatore a Pechino). Per quel che riguarda la politica estera, invece, la scelta di un personaggio di primo piano  sarebbe una lusinga per la Cina, un implicito riconoscimento del suo valore non solo e non tanto come concorrente commerciale, ma anche come controparte politica da temere e rispettare.

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Un’altra nomina che restituisce l’idea dell’estrema attenzione che Biden riporrà verso la Cina è quella di Katherine Tai al ruolo di rappresentante del Commercio. Tai è un’americana di origini taiwanesi, che parla fluentemente il mandarino e che ha insegnato per due anni alla Zhongshan University di Guangzhou: se sarà nominata, dovrà districarsi tra dazi e regole commerciali, tenendo presente che, almeno per ora, Biden sembra intenzionato a concentrarsi più sulla manifattura interna che sul commercio internazionale. Infine, a farci capire che le cose non si risolveranno ma cambieranno, c’è la terza mossa di Joe Biden: quella di nominare, all’interno del Consiglio per la Sicurezza nazionale, un responsabile (o un team di responsabili) concentrato solo sull’Asia

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