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La vergogna dei sovranisti che chiudono gli occhi sugli orrori di Ungheria e Polonia

Anche i populisti italiani dovrebbero capire che con l’opposizione del duo di Visegrád non è in gioco solo il futuro del Recovery plan ma il futuro dell’Europa e i valori non negoziabili della democrazia liberale

Claudio Cerasa

L’Europa vicina a un punto di rottura non solo diplomatico, sintetizzato perfettamente dall’eurodeputata olandese (del gruppo macroniano Renew) Sophie in ’t Veld: “Se non si rispettano le regole dell’Ue, non si vuole farne parte. In tal modo non è possibile rimanere membri dell’Ue con tutti i benefici, compresi i fondi Ue”

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"What else should Fidesz do for all of you to see that they simply don’t fit in with our family?”. Donald Tusk è stato primo ministro della Polonia dal 2007 al 2014, è stato presidente del Consiglio europeo dal 2014 al 2019, ricopre dal 21 novembre del 2019 l’incarico di presidente del Partito popolare europeo e qualche giorno fa, in un tweet molto amareggiato, si è posto una domanda chiave per provare a ragionare intorno alle convulsioni della destra europea: “Cos’altro dovrebbe fare Fidesz – il partito di Viktor Orbán, iscritto al gruppo del Partito popolare europeo – per dimostrare a tutti voi che semplicemente non ha alcuna intenzione di adattarsi alla nostra famiglia?”. Il tema a cui fa riferimento Tusk è collegato non solo alla formidabile storia dell’orgia che ha coinvolto un europarlamentare del partito di Orbán ma anche al veto minacciato giorni fa sul Recovery fund dal governo ungherese e da quello polacco entrambi convinti che sia inaccettabile legare al rispetto dello stato di diritto (regalato dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea) l’erogazione dei fondi previsti dal piano Next Generation Eu. In molti, in Europa e in Italia, hanno osservato questa vicenda mostrando grande preoccupazione per il possibile rallentamento del piano sul Recovery, ma in pochi hanno invece mostrato preoccupazione sincera rispetto alla gravità rappresentata dalle affermazioni dei due governi europei.

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"What else should Fidesz do for all of you to see that they simply don’t fit in with our family?”. Donald Tusk è stato primo ministro della Polonia dal 2007 al 2014, è stato presidente del Consiglio europeo dal 2014 al 2019, ricopre dal 21 novembre del 2019 l’incarico di presidente del Partito popolare europeo e qualche giorno fa, in un tweet molto amareggiato, si è posto una domanda chiave per provare a ragionare intorno alle convulsioni della destra europea: “Cos’altro dovrebbe fare Fidesz – il partito di Viktor Orbán, iscritto al gruppo del Partito popolare europeo – per dimostrare a tutti voi che semplicemente non ha alcuna intenzione di adattarsi alla nostra famiglia?”. Il tema a cui fa riferimento Tusk è collegato non solo alla formidabile storia dell’orgia che ha coinvolto un europarlamentare del partito di Orbán ma anche al veto minacciato giorni fa sul Recovery fund dal governo ungherese e da quello polacco entrambi convinti che sia inaccettabile legare al rispetto dello stato di diritto (regalato dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea) l’erogazione dei fondi previsti dal piano Next Generation Eu. In molti, in Europa e in Italia, hanno osservato questa vicenda mostrando grande preoccupazione per il possibile rallentamento del piano sul Recovery, ma in pochi hanno invece mostrato preoccupazione sincera rispetto alla gravità rappresentata dalle affermazioni dei due governi europei.

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Eil caso italiano è ancora più singolare, pensando al fatto che i due più importanti partiti del centrodestra (la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, anche se in realtà l’unico partito formalmente alleato con Orbán in Europa è Forza Italia) considerano il governo ungherese e quello polacco come degli splendidi modelli di buon governo europeo. E’ possibile che alla fine il veto di Ungheria e Polonia venga evitato ma non è possibile invece far finta di non aver visto lo spettacolo raccapricciante offerto in Europa dall’estrema destra di governo desiderosa così tanto di combattere l’Europa della solidarietà al punto da aver difeso due paesi che hanno scelto di fare della violazione sistematica dello stato di diritto europeo un proprio punto d’orgoglio.

  

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Già, ma di cosa stiamo parlando? Juan Fernando López Aguilar è un eurodeputato del Pse, è relatore sullo stato di diritto in Polonia per il Parlamento europeo e presidente della Commissione libertà civili, giustizia e affari interni e qualche settimana fa ha messo insieme i puntini per spiegare perché la presenza, all’interno del piano sul Recovery, di un’efficace condizionalità che protegga il bilancio Ue nel momento in cui lo stato di diritto viene violato non è solo una priorità, ma è una conditio sine qua non degli imminenti negoziati col Parlamento europeo. Il quadro offerto da López Aguilar è semplicemente devastante ed è un’istantanea dettagliata su come lo stato di diritto, la democrazia e i diritti fondamentali siano stati sistematicamente compromessi e feriti in Polonia a partire dal 2015. “Dopo essere riuscito a politicizzare la Corte costituzionale e il Consiglio nazionale della magistratura, il governo polacco ha proseguito nell’operazione di smantellamento della Corte suprema e ha portato avanti una campagna d’intimidazione a scapito dei giudici che hanno mosso critiche a questi cambiamenti del sistema giudiziario. Ciò di cui siamo stati testimoni in Polonia non è solo un episodio, ma una serie di diverse azioni e riforme legislative intraprese dalla maggioranza PiS che, viste nel complesso, rappresentano una grave, reiterata e sistemica violazione dello stato di diritto”.

  

Diritti come la libertà di espressione. Diritti come il pluralismo. Diritti come la libertà di stampa, quella accademica, di associazione e manifestazione. López Aguilar aggiunge poi che questo non è l’unico aspetto preoccupante di una situazione purtroppo più articolata e ciò che “desta profonda preoccupazione è il rispetto dei diritti fondamentali, con particolare riferimento alla libertà dei mezzi d’informazione e alla protezione delle minoranze”.

 

Vale per la Polonia ma vale anche per l’Ungheria. E i partiti desiderosi di rispettare la volontà del popolo dovrebbero ricordarsi ogni tanto che il popolo in Europa non si esprime solo quando vota nei paesi membri ma si esprime anche quando vota per scegliere i propri rappresentanti al Parlamento europeo. E per quanto possa essere difficile da credere per Giorgia Meloni e per Matteo Salvini, i rappresentanti del popolo al Parlamento europeo lo scorso 16 gennaio hanno votato a stragrande maggioranza – 446 voti favorevoli, 178 contrari e 41 astenuti – una risoluzione in cui viene sottolineato come, anche stando alle relazioni e alle dichiarazioni di Onu, Ocse e Consiglio d’Europa, “la situazione sia in Polonia che in Ungheria si è deteriorata sin dall’attivazione dell’articolo 7, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea”. E arrivare al punto di chiedere di valutare l’attivazione dell’articolo 7 significa arrivare a un passo da un punto di rottura non solo diplomatico, sintetizzato perfettamente dall’eurodeputata olandese (del gruppo macroniano Renew) Sophie in ’t Veld:Se non si rispettano le regole dell’Ue, non si vuole farne parte. In tal modo non è possibile rimanere membri dell’Ue con tutti i benefici, compresi i fondi Ue”.

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Stato di diritto, certo, ma in che senso? Ed esattamente, di cosa stiamo parlando? Lo scorso 30 settembre, la Commissione europea ha pubblicato il suo primo rapporto sullo stato di diritto nell’Unione europea, ed è sufficiente leggere i capitoli dedicati a Polonia e Ungheria per capire, con toni meno astratti, di cosa stiamo parlando. Per quanto riguarda la Polonia, i punti critici sono tendenzialmente tre. Riforme giudiziarie, “che hanno ripercussioni sul Tribunale costituzionale, sulla Corte suprema, sui tribunali ordinari, sul Consiglio nazionale della magistratura e sulla procura, e che hanno aumentato l’influenza del potere esecutivo e del potere legislativo sul sistema giudiziario e hanno quindi indebolito l’indipendenza della magistratura”. Queste riforme hanno indotto “la Commissione ad avviare nel 2017 la procedura di cui all’articolo 7, paragrafo 1”, hanno portato nel 2019 e nel 2020 la Commissione ad avviare “due nuove procedure di infrazione per salvaguardare l’indipendenza della magistratura” e hanno portato “la Corte di giustizia dell’Ue a emettere provvedimenti provvisori per sospendere i poteri della sezione disciplinare della Corte suprema per quanto riguarda i procedimenti disciplinari nei confronti dei giudici”. Il secondo punto riguarda la presenza, documentata, di “preoccupazioni circa l’indipendenza delle principali istituzioni responsabili della prevenzione e della lotta alla corruzione, in particolare se si considera che l’Ufficio centrale anticorruzione è subordinato all’esecutivo e che il ministro della Giustizia svolge contemporaneamente le funzioni di procuratore generale”.

  

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Il terzo punto riguarda invece, nello specifico, “il quadro giuridico polacco in materia di pluralismo dei media che si basa sia sulle garanzie costituzionali che sulla legislazione settoriale”, con un rilievo specifico relativo a una norma che rende possibile, per i giornalisti, “la criminalizzazione dell’oltraggio a pubblico ufficiale”. Quanto all’Ungheria, il quadro, se possibile, è ancora più fosco. “Nel corso degli ultimi anni – si legge nel dossier – le istituzioni dell’Ue hanno spesso sollevato con preoccupazione il problema dell’indipendenza della magistratura ungherese, anche nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7, paragrafo 1, avviata dal Parlamento europeo. L’invito a rafforzare tale indipendenza, formulato nel contesto del semestre europeo, è rimasto lettera morta”. In particolare, “il Consiglio nazionale della magistratura, organo indipendente, è in difficoltà nel controbilanciare i poteri del presidente dell’Ufficio giudiziario nazionale competente per l’amministrazione degli organi giurisdizionali. Preoccupano anche gli sviluppi relativi alla Corte suprema (Kúria) e in particolare la sua decisione di dichiarare illegittima una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Alcune norme recentemente approvate, oltre a consentire la nomina alla Corte suprema di membri della Corte costituzionale, eletti dal Parlamento al di fuori della normale procedura, abbassano i criteri di eleggibilità del presidente della Corte suprema. Per quanto riguarda l’efficienza e la qualità, il sistema giudiziario è soddisfacente, in particolare in termini di durata dei procedimenti, e presenta un livello di digitalizzazione elevato”. Continua la Commissione: “Il quadro istituzionale anticorruzione è suddiviso tra vari organi. Le carenze dei meccanismi di controllo indipendenti e le strette interconnessioni tra il potere politico e alcune imprese nazionali favoriscono la corruzione. Mancano sistematicamente interventi decisi nelle indagini e nelle azioni penali in caso di accuse gravi di corruzione nei confronti di funzionari di alto livello o della loro cerchia immediata. Questo problema è stato sollevato nell’ambito del semestre europeo e dal Greco (il Group of States against Corruption), in considerazione della mancanza di impegno nel rispettare le raccomandazioni”. Infine, “la Corte di giustizia ha ritenuto non compatibile con il diritto dell’Ue la legislazione sulla trasparenza delle organizzazioni della società civile finanziate con fondi stranieri; le misure legislative necessarie per l’esecuzione della sentenza sono in fase di preparazione”.

   

Lo scontro tra l’Europa e il duo di Visegrád formato da Polonia e Ungheria non è dunque solo uno scontro sul futuro del Recovery plan ma è prima di tutto uno scontro sul futuro dell’Europa e sui valori non negoziabili di una democrazia liberale. E se la scelta da prendere oggi dovesse essere quella tra avere un’Europa con più diritti o un’Europa con più paesi, la decisione, con buona pace di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, potrebbe essere meno difficile rispetto a quello che sembra. 

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