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A guardare i voti nei referendum, l’America libertaria sta proprio bene

Carlo Stagnaro

Nella maggior parte dei casi, gli elettori hanno chiesto meno tasse, meno intervento pubblico e meno regolamentazione

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E se, tra l’onda blu che non c’è stata e l’onda rossa che s’è infranta, negli Stati Uniti si stesse silenziosamente facendo strada l’onda gialla dei libertari? E’, ovviamente, una provocazione, ma fino a un certo punto. Il 4 novembre, l’America si è svegliata – politicamente – molto diversa da com’era prima di andare a dormire: Donald Trump, che solo quattro anni prima aveva espugnato il Partito repubblicano e la Casa Bianca, ha ricevuto un avviso di sfratto. Eppure, dietro il “flip”, è difficile individuare un rovesciamento ideologico. Men che meno si può parlare di una vittoria della componente più massimalista dei democratici, come pure hanno provato a insinuare Alexandria Ocasio-Cortez e la sua “Squad”. Altrimenti, non si spiegherebbe né la vittoria di Biden in alcune tradizionali roccaforti del Gop né l’esito delle contemporanee elezioni per il Congresso. Da un lato, Joe Biden e Kamala Harris sono riusciti a porsi come un’alternativa rassicurante alle follie trumpiane: l’uscente ha tentato in ogni modo di dipingerli come dei cripto-socialisti. Dall’altro, il presidente eletto dovrà usare tutta la sua diplomazia per affrontare un Congresso “diviso”, cioè a maggioranza repubblicana o comunque spaccato a metà (per avere i numeri precisi, occorre aspettare la fine dei conteggi e lo spareggio in Georgia).

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E se, tra l’onda blu che non c’è stata e l’onda rossa che s’è infranta, negli Stati Uniti si stesse silenziosamente facendo strada l’onda gialla dei libertari? E’, ovviamente, una provocazione, ma fino a un certo punto. Il 4 novembre, l’America si è svegliata – politicamente – molto diversa da com’era prima di andare a dormire: Donald Trump, che solo quattro anni prima aveva espugnato il Partito repubblicano e la Casa Bianca, ha ricevuto un avviso di sfratto. Eppure, dietro il “flip”, è difficile individuare un rovesciamento ideologico. Men che meno si può parlare di una vittoria della componente più massimalista dei democratici, come pure hanno provato a insinuare Alexandria Ocasio-Cortez e la sua “Squad”. Altrimenti, non si spiegherebbe né la vittoria di Biden in alcune tradizionali roccaforti del Gop né l’esito delle contemporanee elezioni per il Congresso. Da un lato, Joe Biden e Kamala Harris sono riusciti a porsi come un’alternativa rassicurante alle follie trumpiane: l’uscente ha tentato in ogni modo di dipingerli come dei cripto-socialisti. Dall’altro, il presidente eletto dovrà usare tutta la sua diplomazia per affrontare un Congresso “diviso”, cioè a maggioranza repubblicana o comunque spaccato a metà (per avere i numeri precisi, occorre aspettare la fine dei conteggi e lo spareggio in Georgia).

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Anche nello scenario più favorevole ai democratici, il Congresso – e soprattutto il Senato – sarà appeso a una maggioranza esile. Quindi la frangia massimalista del partito dell’Asinello difficilmente riuscirà a imporre la propria linea al presidente, il quale (si presume) si troverà molto più a suo agio in un equilibrio, per così dire, centrista. E’ anche questo che ha causato una certa euforia nei circoli libertari. Sul blog Econlib, l’economista Scott Sumner ha chiosato “a good night for libertarians”. E Robby Soave, editorialista di Reason, ha notato che “alcuni dei peggiori istinti di entrambi i partiti sono stati messi a tacere, e la prossima Amministrazione non avrà né il mandato né la possibilità di mettere in atto trasformazioni radicali nella politica economica”. Dal punto di vista libertario, che in italiano potremmo grossolanamente tradurre come neoliberista, un democratico moderato alla Casa Bianca, costretto a trattare coi repubblicani moderati del Senato, è la combinazione migliore per evitare pericolose sbandate a sinistra, per esempio sulla politica fiscale, senza mettere i falchi repubblicani nella condizione di imporre la loro linea in altri campi, come l’immigrazione. C’è altro: mentre gli occhi dei più erano concentrati sulle elezioni, in diversi stati si sono svolti referendum su temi chiave, che in qualche modo danno il termometro ideologico del paese e finiranno per condizionare gli orientamenti dei due partiti. La “trumpiana” Florida ha votato per un significativo incremento del salario minimo legale (che gradualmente dovrà crescere da 8,56 a 15 dollari). Ma in quasi tutti gli altri stati, le cose sono andate come speravano i libertari.

 

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Nella superdemocratica California (che ha dato a Biden il 64,6 per cento dei consensi), una serie di consultazioni popolari ha frustrato le speranze sia della sinistra estrema sia della destra paternalista: ha autorizzato il finanziamento di ulteriori ricerche sulle cellule staminali, respinto l’aumento di alcune tasse sulle imprese, semplificato o ridotto le tasse sugli immobili, bocciato clamorosamente una specie di equo canone, salvaguardato il modello di business di Uber e Lyft senza obbligarle ad assumere i driver. L’unico voto che ad alcuni libertari (ma non a tutti) potrebbe far storcere il naso è sull’inasprimento delle norme sulla privacy. Ancora: l’Illinois ha rigettato l’idea di un’imposta progressiva sul reddito delle imprese. E altri quattro stati (New Jersey, Arizona, Montana e South Dakota) hanno legalizzato la marijuana, mentre l’Oregon ha autorizzato il possesso di modesti quantitativi di droga e Washington, DC quello dei funghi psichedelici.

 

Cosa sta succedendo? Sarebbe, ovviamente, ingenuo immaginare un’improvvisa sterzata libertaria negli Stati Uniti. In fondo restano il paese dove Trump ha fatto il pieno dei voti nonostante la sua agenda protezionista e apertamente razzista. E Biden ha vinto imponendosi su un partito dove l’ala più moderata convive con una frangia che non esita a definirsi socialista e inseguire il miraggio venezuelano. Eppure, ci sono fatti che è difficile non mettere in fila. Intanto, un dato politico: tra tutti gli artifici retorici di Trump, quello che ha fatto più male a Biden – costringendolo a prendere posizioni nette – è stato proprio l’accusa di socialismo. Ecco: l’America del 3 novembre 2020 ribadisce, come tante volte in passato, che “socialismo” è una brutta parola. Ciò è talmente evidente che quegli stessi americani che hanno dato la fiducia al “centrista” Biden l’hanno negata al suo partito, percepito come più spostato a sinistra. Per parafrasare John Cochrane, si è materializzato il sogno dei “never-Trump” senza che abbia preso sostanza l’incubo di chi sperava di canalizzare la reazione contro l’inquilino della Casa Bianca per sovvertire le istituzioni a stelle e strisce. Inoltre, dovendosi pronunciare su questioni specifiche, gli americani sembrano aver avuto ben poco riguardo ai diktat di partito: e, nella maggior parte dei casi, hanno chiesto meno tasse, meno intervento pubblico e meno regolamentazione. Forse non c’è abbastanza materiale per inferirne un improvviso e inatteso cambio di rotta rispetto all’America che quattro anni fa si era affidata al populista in chief e che ancora la settimana scorsa gli ha tributato un numero record di voti. Ma ce n’è sicuramente per interrogarsi su quanto la sostanza di cui è fatta l’America sia ancora, fortunatamente, intrisa di quel senso di libertà che ne ha determinato le fortune e la prosperità.

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