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i valori a cui aggrapparsi

L’America divisa fra relativisti e suprematisti riparta dai suoi Fondatori

Alfonso Berardinelli

Oggi la cultura americana sembra oscillare tra due burroni: da una parte il minestrone insipido della “correttezza politica” dei liberal di New York; dall’altra l’esaltazione tronfia, astiosa di una presunta “grandezza” che si appella soprattutto alla cosiddetta America profonda

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Circa quarant’anni fa, per sottrarlo a una discussione che stava prendendo una brutta piega, posi a un collega ebreo-americano una di quelle domande che, pur raggiungendo lo scopo che si prefiggono, non possono certo essere considerate particolarmente intelligenti: “Che effetto fa vivere in un paese senza tradizione?”. Ne ottenni una risposta immediata e fulminante: “Si vive molto meglio che in un paese senza futuro”. A questo episodio ripensavo nei giorni scorsi, mentre seguivo lo spoglio delle elezioni americane. Di certo nelle battute col collega americano era ben presente uno stereotipo allora largamente diffuso: quello di un’Europa con un grande passato, ma decisamente in affanno, e di un’America che sentiva invece davanti a sé un grande futuro. Ma oggi questo stereotipo non vale più. Anche l’America è gravemente malata, malata di una malattia che colpisce, non tanto la sua potenza economico-militare, quanto la sua cultura in generale e la sua cultura politica in particolare.

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Circa quarant’anni fa, per sottrarlo a una discussione che stava prendendo una brutta piega, posi a un collega ebreo-americano una di quelle domande che, pur raggiungendo lo scopo che si prefiggono, non possono certo essere considerate particolarmente intelligenti: “Che effetto fa vivere in un paese senza tradizione?”. Ne ottenni una risposta immediata e fulminante: “Si vive molto meglio che in un paese senza futuro”. A questo episodio ripensavo nei giorni scorsi, mentre seguivo lo spoglio delle elezioni americane. Di certo nelle battute col collega americano era ben presente uno stereotipo allora largamente diffuso: quello di un’Europa con un grande passato, ma decisamente in affanno, e di un’America che sentiva invece davanti a sé un grande futuro. Ma oggi questo stereotipo non vale più. Anche l’America è gravemente malata, malata di una malattia che colpisce, non tanto la sua potenza economico-militare, quanto la sua cultura in generale e la sua cultura politica in particolare.

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Tramontato il mito del melting pot, ossia del crogiuolo capace di fondere insieme le molte culture in modo da esaltare quanto di meglio c’è in ognuna di esse, facendole marciare insieme verso uno “scopo comune” (l’immagine è di Tocqueville), oggi la cultura americana sembra oscillare tra due burroni: da una parte il minestrone insipido della “correttezza politica” dei liberal di New York; dall’altra l’esaltazione tronfia, astiosa di una presunta “grandezza” americana che si appella soprattutto alla cosiddetta America profonda. Questa non è più soltanto una polarizzazione politica; è piuttosto una guerra di religione, condotta senza esclusione di colpi da entrambe le parti, a scapito di istituzioni che, considerate per tanto tempo il segno della vera grandezza americana, di fronte a un confronto politico tanto lacerante, potrebbero non riuscire più a fare da tessuto connettivo. Mentre Biden ha ormai vinto, Trump continua a parlare di frode elettorale. Non è un bello spettacolo, specialmente se consideriamo la sobrietà con la quale il primo celebra la sua vittoria e la scompostezza quasi eversiva con la quale il secondo non sembra volersi in alcun modo rassegnare alla sconfitta.

 

Ma tra qualche settimana di tutto questo speriamo non resti più traccia. Resterà invece la realtà di un’America profondamente divisa che dovrà essere faticosamente e necessariamente ricomposta. Troppo importante il ruolo geopolitico americano per dissiparsi in guerre intestine. Oltretutto sarebbe la prima volta che questo accade. Le battaglie elettorali per l’elezione del presidente sono sempre state più o meno cruente, ma l’America non ha mai dato l’impressione che una campagna per l’elezione presidenziale potesse intaccare la realtà e lo spirito della nazione. Questa volta invece è diverso. Nel dibattito pubblico si sente l’astio e il disprezzo non soltanto per il candidato della parte avversa, ma anche per coloro che lo votano. Una delegittimazione totale che potrebbe avere conseguenze devastanti. “Pensavamo che queste elezioni andassero diversamente”, si leggeva sul New York Times di giovedì scorso. E in effetti nessuno avrebbe immaginato che Trump potesse raccogliere ancora tanti consensi.

 

Ma è tempo che anche i democratici incomincino a riflettere seriamente sulle loro responsabilità rispetto al trumpismo (che è una cosa diversa, almeno lo spero, dal conservatorismo repubblicano). La globalizzazione è un fenomeno inevitabile, è vero, ma non basta dirlo; occorre offrire alle persone la possibilità di sfruttarne al meglio le opportunità, aiutando il più possibile coloro che non ce la fanno, non certo voltandosi da un’altra parte come hanno fatto i democratici negli ultimi anni. Per non dire della loro postura culturale. Trump in questi giorni ha dato indubbiamente una dimostrazione ulteriore di quale pasta indigesta sia fatta la sua personalità. Giuliano Ferrara l’ha descritta assai bene su questo giornale sabato scorso. Tuttavia non vorrei che, passata la paura, la ben nota spocchia liberal nei confronti di tutti coloro che non rientrano nei canoni di un certo secolarismo relativista e moralista ne esca rinfrancata.

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In questo momento ho l’impressione che gli americani debbono fare soprattutto un grande sforzo per venire in chiaro con se stessi. I loro grandi valori, primi fra tutti la libertà, la determinazione a fare da soli senza le previdenze dello stato, il rispetto delle diversità in generale non sono un semplice “gioco linguistico” buono per legittimare qualsiasi “diritto”, come pensano molti liberal, né vanno confusi con la propaganda xenofoba, cialtrona e confessionale del trumpismo. Per fortuna, al di là di quanto emerge dal dibattito pubblico e sui social, questi valori sono ancora vivi nella società, nella cultura e nelle istituzioni politiche americane. Sta dunque alle nuove classi dirigenti, e a Biden in particolare, riprendere a coltivarli con uno spirito più attento alla realtà e meno alle radicalizzazioni ideologiche, sapendo che mai come oggi gli americani e il mondo intero hanno avuto tanto bisogno dell’America. All’orizzonte ci sono sfide di dimensioni gigantesche: l’ambiente, le nuove tecnologie, la geopolitica, la Cina, il ruolo dell’occidente (America e Europa) e, se si vuole, la pandemia.

 

Un mondo globalizzato ha l’assoluta necessità di gestire questi problemi in un orizzonte che sappia far coesistere la fermezza rispetto ai suddetti valori e la inevitabile diversità delle prospettive. L’America ci ha insegnato per anni che ciò è possibile. Non a caso questa “nazione di nazionalità” è potuta diventare sia un modello di democrazia liberale, sia una sorta di metafora vivente della grande varietà dei popoli e delle nazioni del mondo. Ma ha potuto farlo perché dietro la teoria e la pratica del suo pluralismo e del suo multiculturalismo non stavano né il relativismo aggressivo né il suprematismo risentito che oggi la pervadono, bensì le profonde convinzioni dei suoi Fondatori. Forse è il caso di ripartire di lì.

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