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I guardiani di Trump

Stefano Cingolani

Petrolieri, militari, e anche operai. Alla vigilia del voto, ecco i poteri forti che sostengono Donald, nonostante tutto

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Negli Stati Uniti d’America è tornata la lotta di classe. Sì, proprio nel paese in cui la grande pancia della società aveva fagocitato, ingoiato, diluito sia il proletariato sia la borghesia, lasciando fuori due estremità sottili: il grande capitale e il sottoproletariato per lo più composto di “colored”, afro-americani, ispanici, asiatici, immigrati di prima generazione. Invece, ecco che arriva Donald Trump e sale in cattedra Karl Marx. Non ci credete? Lunedì scorso il presidente ha attaccato Joe Biden come nemico della classe operaia: “E’ un globalista puro e duro che vuole spazzare via le vostre acciaierie, chiudere le vostre fabbriche, uccidere i vostri posti di lavoro nelle miniere di carbone e per mezzo secolo ha sostenuto ogni orribile, terribile, ridicolo accordo commerciale”, ha tuonato The Donald a Lititz, una cittadina nel cuore della Pennsylvania. Lo stato dove nacque l’indipendenza (la dichiarazione fu firmata il 4 luglio 1776 a Phliladelphia), ha un ruolo chiave per la rielezione. E i lavoratori delle industrie minacciate dalla concorrenza cinese sono stati essenziali nella vittoria del 2016. Lo saranno di nuovo? A differenza da quel che pensava Marx, i proletari di tutto il mondo non sono portati a unirsi, la classe operaia è nazionale e molto spesso nazionalista, oggi diremmo che è local non global. Anche se il sostegno dei colletti blu è fondamentale, i pilastri del trumpismo sono molti di più. Mentre sono in corso le votazioni il presidente in carica ha molte frecce al suo arco e fedeli guardiani che gli reggono la faretra. Resta sfavorito dai sondaggi, tuttavia la sua rincorsa è impressionante: il rimbalzone economico nel terzo trimestre dell’anno (il pil è cresciuto del 33,1 per cento, anche se ha recuperato solo due terzi del prodotto perduto) lo aiuta e, dopo aver consolato i perdenti della “rustbelt”, la cintura della vecchia industria, arrugginita, ma ancora potente, adesso punta sulla “sunbelt”, la cintura del sole che si snoda dalla Florida. Contro tutti e contro tutto anche il caos con il quale ha gestito la pandemia.

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Negli Stati Uniti d’America è tornata la lotta di classe. Sì, proprio nel paese in cui la grande pancia della società aveva fagocitato, ingoiato, diluito sia il proletariato sia la borghesia, lasciando fuori due estremità sottili: il grande capitale e il sottoproletariato per lo più composto di “colored”, afro-americani, ispanici, asiatici, immigrati di prima generazione. Invece, ecco che arriva Donald Trump e sale in cattedra Karl Marx. Non ci credete? Lunedì scorso il presidente ha attaccato Joe Biden come nemico della classe operaia: “E’ un globalista puro e duro che vuole spazzare via le vostre acciaierie, chiudere le vostre fabbriche, uccidere i vostri posti di lavoro nelle miniere di carbone e per mezzo secolo ha sostenuto ogni orribile, terribile, ridicolo accordo commerciale”, ha tuonato The Donald a Lititz, una cittadina nel cuore della Pennsylvania. Lo stato dove nacque l’indipendenza (la dichiarazione fu firmata il 4 luglio 1776 a Phliladelphia), ha un ruolo chiave per la rielezione. E i lavoratori delle industrie minacciate dalla concorrenza cinese sono stati essenziali nella vittoria del 2016. Lo saranno di nuovo? A differenza da quel che pensava Marx, i proletari di tutto il mondo non sono portati a unirsi, la classe operaia è nazionale e molto spesso nazionalista, oggi diremmo che è local non global. Anche se il sostegno dei colletti blu è fondamentale, i pilastri del trumpismo sono molti di più. Mentre sono in corso le votazioni il presidente in carica ha molte frecce al suo arco e fedeli guardiani che gli reggono la faretra. Resta sfavorito dai sondaggi, tuttavia la sua rincorsa è impressionante: il rimbalzone economico nel terzo trimestre dell’anno (il pil è cresciuto del 33,1 per cento, anche se ha recuperato solo due terzi del prodotto perduto) lo aiuta e, dopo aver consolato i perdenti della “rustbelt”, la cintura della vecchia industria, arrugginita, ma ancora potente, adesso punta sulla “sunbelt”, la cintura del sole che si snoda dalla Florida. Contro tutti e contro tutto anche il caos con il quale ha gestito la pandemia.

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“Covid, Covid, Covid, si parla solo di questo, ma non vi preoccupate, dal 4 novembre non lo sentirete più nominare”. Trump, lui che si è beccato il virus fa il gradasso dal palco del comizio e se la prende con la stampa ostile; intanto Mark Meadows, capo dello staff alla Casa Bianca alza bandiera bianca: il virus è incontrollabile, speriamo solo nel vaccino. Il presidente aveva promesso che sarebbe arrivato prima del voto e solo per i suoi concittadini, ora e sempre America first. Non è così, ma non c’è dubbio che i colossi di Big Pharma lanciati nella corsa al rimedio miracoloso, si sono sentiti stimolati, nonostante le fanfaronate presidenziali. Trump a febbraio prevedeva “zero casi in pochi giorni”. Poi con Bob Woodward ha ammesso che sapeva tutto, ma ha minimizzato per non creare panico. Persino negli stati del Midwest il dissenso cresce con i contagi. La gestione è stata disastrosa, guidata dalla propaganda non dalla scienza. Ma è davvero meglio altrove, nei paesi europei più anti-trumpiani? Dunque, attenti a conclusioni facilone. The Donald è di per sé un negazionista (nega tutto quel che non gli conviene) e il suo rifiuto della mascherina è stato imitato da capi e capetti nella Internazionale della nuova destra. Ma guai a credere che sia soltanto il leader dei no vax, dei no mask, dei razzisti e del “popolo bianco in armi”. Perché “i mercanti del dubbio”, così li chiama Paul Krugman, sono molti e ben distribuiti, vengono anche dall’altro mondo, come Falun Dafa (o Falun Gong) che negli Stati Uniti pubblica “The Epoch Times”, megafono della diaspora cinese anti-regime, trumpista ante marcia e gran diffusore di notizie fasulle o falsificate.

   

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“Covid, Covid, Covid, si parla solo di questo, ma non vi preoccupate, dal 4 novembre non lo sentirete più nominare”. Sette, clan, associazioni eversive: pur senza minimizzare, siamo in pieno vaudeville. Ma con chi sta il complesso militar-industriale?


  

Sette, clan, associazioni eversive: pur senza minimizzare, siamo in pieno vaudeville. Ben altri sono i veri guardiani. Con chi sta, ad esempio, il complesso militar-industriale? Lo chiamò così Dwight Eisenhower quando vide che gli aveva voltato le spalle e si era schierato per John Fitzgerald Kennedy. L’espressione diventata storica fu pronunciata nel suo discorso d’addio il 17 gennaio 1961. E lui che era un generale, anzi un generalissimo, il vincitore della Seconda guerra mondiale, mise in guardia contro “questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari ed un’enorme industria di armamenti… L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale… Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito”. Eisenhower fece appello a “un popolo di cittadini allerta e consapevole”, parole che suonano oggi quanto mai attuali.

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Il complesso militar-industriale aveva fatto la fronda sotto Barack Obama, ma avrebbe potuto accettare Hillary Clinton. Trump ha litigato con il Pentagono e licenziato fior di top brass (come gli americani chiamano i generalissimi) che lo consigliavano. Poi ha attaccato apertamente di corruzione gli stati maggiori i quali entrano in guerra solo “per favorire l’industria della Difesa”, si è spinto anche a definire “perdenti” i soldati americani morti in combattimento, chiamandoli idioti con un termine, “sucker”, che nel linguaggio ordinario equivale all’italiano coglione. E tuttavia gli accordi per le forniture a paesi come l’India o l’Arabia Saudita sono una manna mentre l’escalation nel Pacifico mette in moto la marina. A Woodward il presidente ha rivelato di avere un’arma segreta potentissima, probabilmente una superbomba nucleare che può essere lanciata anche dallo spazio. Un progetto cominciato in realtà durante la presidenza Obama, ma, è il caso di dirlo, à la guerre comme à la guerre. Se di questo si tratta, rafforza in ogni caso sia il Pentagono sia la Nasa sfidata nella corsa alle stelle da rampanti soggetti extra istituzionali. Uno di loro è Elon Musk, il visionario uomo d’affari nato in Sud Africa, un cavallo pazzo al quale non dispiace il cavallo pazzo della Casa Bianca. Forse più per vanità che per convinzione, durante la pandemia si è lanciato in affermazioni riduzioniste appoggiando i gruppi antilockdown. E’ un libertario che vuole lo stato minimo, secondo alcuni. Un socialista non del tutto mascherato secondo altri. O forse un liberal sui diritti civili e un conservatore su tasse e politica economica. Musk lascia credere che abbiano ragione gli uni e gli altri. Intanto potenzia l’immagine dell’uomo che si butta nelle sfide impossibili, capitalista post-moderno che rispolvera i sogni risposti nel cassetto, discendente diretto dell’imprenditore schumpeteriano.

   

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Trump può contare sui lupi di Wall Street che finora hanno continuato a correre più veloci del coronavirus. Ma gli eroici furori si stanno spegnendo e in ogni caso gli indici azionari sono sostenuti soprattutto dalla Silicon Valley diventata ormai la frontiera della guerra tecnologica con la Cina. A San Francisco e dintorni domina l’azzurro, il colore dei Democrats; non è così chiaro, però, se i colossi del web si schiereranno con Joe Biden che ha promesso di tassarli e tartassarli per lisciare il pelo alla sinistra del partito. Jeff Bezos è senza dubbio l’anti Trump. The Donald gli invidia la ricchezza e fa di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote. Poiché vive di media e per i media, la sua bestia nera è il Washington Post che chiama Amazon Post anche se Bezos lo ha acquistato nel 2013 senza passare per la regina dell’ecommerce. Quando è divenuto chiaro che Trump avrebbe puntato alla Casa Bianca, sotto la testata del più importante quotidiano della capitale è apparso il motto “Democracy Dies in Darkness”, la democrazia muore nelle tenebre.

  

La Apple ha sempre finanziato in modo equanime Democratici e Repubblicani, ma Trump si è spinto fino a Austin, roccaforte liberal del Texas, per visitare la fabbrica di Macbook lodando la scelta di investire negli States fatta da Tim Cook e non ha potuto fare a meno di mandare i suoi consigli su come migliorare gli iPhone. Introverso, umile, dedito al lavoro, omosessuale dichiarato, l’amministratore delegato sembra l’opposto di Bezos oltre che del suo mentore Steve Jobs. Anche se ha votato una volta per Obama e nel 2016 per Hillary, si muove con i piedi di piombo in campi inesplorati; non si concede all’esterno né ai giornalisti, non frequenta salotti, vorrebbe essere un modello per gli umiliati e offesi, oltre che per i gay in particolare i giovani che vengono bullizzati persino in famiglia. In una audizione al Congresso si è “impegnato personalmente” ad aumentare il numero di donne e neri nei ruoli dirigenti. Il capo di Apple ha apprezzato i tagli alle tasse e ha cercato di contrattare degli sconti a dazi e tariffe (dalla Cina arriva il grosso della produzione). Tuttavia ha apertamente criticato l’Amministrazione sulla politica ambientale, i diritti civili, i sostegni alle minoranze, l’immigrazione, la privacy. Due anni fa ha escluso ogni suo coinvolgimento nella politica attiva: “Amo che le cose vengano fatte”, ha detto, “Non amo la macchina politica che lavora dietro le spalle, a qualsiasi partito appartenga”.

  

Mark Zuckerberg ha deciso di non accettare pubblicità politiche la settimana prima delle elezioni e ha rimosso da Facebook migliaia di gruppi associati con movimenti razzisti e cospirazionisti (QAnon, per esempio).  “Questa elezione sarà diversa dalle altre”,  ha scritto, “Con la nostra nazione così divisa e i risultati elettorali che richiedono giorni o addirittura settimane per essere finalizzati, ci potrebbe essere un aumento del rischio di disordini civili in tutto il paese”. Sundar Pichai, l’amministratore delegato di Google (e di Alphabet, la società madre) è indiano come sua moglie, si è laureato in Ingegneria nel suo paese poi si è specializzato a Stanford e alla fine ha ottenuto la cittadinanza. Il pugno duro contro i migranti non fa per lui (a giugno ha apertamente criticato la sospensione dei visti), tuttavia Trump lo ha pubblicamente chiamato “un gentleman” perché si è scusato all’inizio della pandemia per le informazioni scorrette che circolavano in rete. Microsoft ha ingaggiato un duello con la Casa Bianca sull’acquisto della cinese Tik Tok (alla fine è prevalsa Oracle). Quanto a Bill Gates non ha mai cambiato idea né campo e continua a pensare e agire da liberal della costa est.

  

La pandemia ha inferto un colpo durissimo alla lobby che più aveva sostenuto Trump: i petrolieri. Il gas e l’olio da scisti hanno reso gli Stati Uniti il più grande produttore mondiale di idrocarburi insidiando l’Arabia Saudita. Adesso molte imprese, soprattutto le più piccole e le più giovani, sono sull’orlo della bancarotta per il crollo dei prezzi. Il presidente ha promesso che lascerà scavare trivellare, schizzare a più non posso acqua ad alta potenza, spezzare le rocce, ma con un barile così a buon mercato non reggono. Ci vogliono nuove sovvenzioni, altrimenti la stessa autonomia energetica degli Usa è in pericolo. Una grande novità industriale, un successo di mercato, si trasforma così in una priorità di sicurezza nazionale (e politica per chiunque voglia vincere) finendo in braccio allo stato. Il petrolio sgorga dal Texas, dall’Oklahoma, in quella larga fascia che va dal lago Eire alle Montagne Rocciose. Anche se Trump perdesse, il conto salato lo pagherebbe Biden.

  


Con chi sta la tecnologia. E poi la pandemia che ha inferto un colpo durissimo alla lobby che più aveva sostenuto Trump: i petrolieri. L’industria delle armi per uso privato quest’anno ha raddoppiato le vendite spinte dalle tensioni razziali e dalla paura


    

E Detroit, la patria dell’operaio massa (come si chiamava un tempo)? E’ caduta e risorta più volte, vuol sempre cambiare e non ci riesce. Tuttavia i big dell’auto sono ancora pilastri importanti del made in America. Colpiti dalla guerra dei dazi e ora dalla pandemia, hanno cercato di allinearsi riportando in patria alcune lavorazioni, anche se per lo più le hanno concentrate nel sud dove fioccano gli incentivi statali e federali o in Messico dove gli operai lavorano molto e guadagnano poco. Trump ha apertamente lodato la Fiat Chrysler, la Jeep del resto è un’icona a stelle e strisce rilanciata da Sergio Marchionne. Ha litigato con la Ford perché ancora troppo “messicana”. Ha condotto una campagna contro le auto tedesche che certo ha fatto piacere alla General Motors che ha rifilato la Opel alla Peugeot. Ma sarebbe eccessivo dire che l’auto americana  è diventata trumpiana. Certo non è l’industria delle armi per uso privato, che quest’anno ha raddoppiato le vendite spinte dalle tensioni razziali, dalla paura e dalla necessità di difendersi non solo dalla “rivincita bianca” dei suprematisti. Il 40 per cento dei nuovi acquirenti non aveva mai posseduto un fucile e una pistola.

  

Molte altre lobby sono pronte a votare “con il portafoglio”. Ma ci sono anche gruppi di pressione che ragionano in base a scelte ideali o interessi di fondo, si pensi solo all’elettorato ebraico: come influirà l’accordo tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein (“una svolta storica” secondo la Casa Bianca)? Una importanza decisiva avrà, poi, il guardiano dei guardiani, la Corte Suprema, l’istituzione che vigila sul sistema americano basato sull’equilibrio tra i poteri. Trump amerebbe trasformarla nella propria guardia d’onore: è l’accusa che i Democratici hanno lanciato quando il presidente ha scelto Amy Coney Barrett prima delle elezioni. Oggi c’è una solida maggioranza conservatrice che potrebbe diventare decisiva se il voto finirà in un caos politico-istituzionale. Ma attenzione, i giudici sono nominati a vita e sulla loro integrità sono pronti a giurare amici e nemici. La neoarrivata, nel ringraziare chi ha votato per lei al Senato (cioè i repubblicani) ha sottolineato che l’indipendenza e l’autonomia saranno i fari del suo cammino. Solo parole? Se lo fossero dovremmo considerare Alexis de Tocqueville un ingenuo di talento e gettare in soffitta “La Democrazia in America”. Il nuovo punto di riferimento, in tal caso, per chiunque voglia capire gli Stati Uniti del XXI secolo, sarebbe il romanzo di Philip Roth “Il Complotto contro l’America”.  E se davvero si fosse presentato, sfidando Franklin Delano Roosevelt, l’eroico trasvolatore Charles Lindbergh, ammiratore di Adolf Hitler, con il suo movimento “America First”? Un incubo a poche notti dalle elezioni più confuse, più difficili, più rischiose forse proprio da quel 1940 in cui gli Stati Uniti avrebbero potuto abbandonare l’Europa in preda ai suoi demoni.

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