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In Libia aggirare l'embargo è troppo semplice

Luca Gambardella

Se si vuole fare durare il cessate il fuoco, va fatto rispettare l'embargo. Ma il caso Ali Abou Merhi dimostra che le falle sono troppe

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Non c’è stato il tempo di apporre le firme all’accordo siglato la scorsa settimana a Ginevra, che il cessate il fuoco in Libia è già avvolto dallo scetticismo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avvertito che “l’intesa manca di credibilità” perché “non è stato sottoscritto al più alto livello”. L’obiettivo di andare a elezioni nazionali nel 2021 sembra troppo ambizioso, a meno che le potenze straniere che finora hanno influenzato il corso dei combattimenti non decidano di fare un passo indietro. Con gli Stati Uniti ancora latitanti, i fili della diplomazia occidentale sono nelle mani dell’Ue, impegnata a limitare al minimo l’afflusso di armi nel paese e a rendere la tregua la più duratura possibile.

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Non c’è stato il tempo di apporre le firme all’accordo siglato la scorsa settimana a Ginevra, che il cessate il fuoco in Libia è già avvolto dallo scetticismo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avvertito che “l’intesa manca di credibilità” perché “non è stato sottoscritto al più alto livello”. L’obiettivo di andare a elezioni nazionali nel 2021 sembra troppo ambizioso, a meno che le potenze straniere che finora hanno influenzato il corso dei combattimenti non decidano di fare un passo indietro. Con gli Stati Uniti ancora latitanti, i fili della diplomazia occidentale sono nelle mani dell’Ue, impegnata a limitare al minimo l’afflusso di armi nel paese e a rendere la tregua la più duratura possibile.

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Perché questo accada, l’applicazione dell’embargo deciso dall’Onu nel 2011 è determinante. Fathi Bashagha, ministro dell’Interno del governo di unità nazionale di Tripoli, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, ha detto al Financial Times che senza il sostegno militare ed economico di forze esterne – leggi Russia, Emirati Arabi Uniti, Francia, Egitto e Giordania – il generale della Cirenaica, Khalifa Haftar, non sarebbe più una minaccia alla pace in Libia. Però i suoi sponsor non hanno mai smesso di consegnargli armi, così come il flusso delle “consegne” è proseguito regolarmente anche dall’altra parte del paese, dove i C-130 turchi continuano ad atterrare alla base di al Watyah, che ormai è l’avamposto militare di Ankara in Libia.

Finora gli sforzi profusi dall’Ue per ostacolare i rifornimenti di armi hanno incontrato diverse difficoltà. Dallo scorso marzo, Bruxelles ha dispiegato una missione aeronavale al largo della Libia – denominata Irini – per intercettare e dissuadere le navi e i voli diretti nel paese. I risultati sono stati modesti, anzi peggio: secondo un report riservato dell’Onu diffuso dall’Associated Press un mese fa, l’embargo si è dimostrato “totalmente inefficace”. Lo scorso luglio David Schenker, vicesegretario americano per il Vicino Oriente, ha detto che la missione europea non è “seria”, perché intercetta solamente le navi turche, ignorando i rifornimenti aerei diretti dagli Emirati a Haftar. La missione europea Irini era il massimo che l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, potesse ottenere mediando fra i paesi membri. Per il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, l’unico vero obiettivo perseguibile dall’Europa è quello di “raccogliere informazioni sulle violazioni dell’embargo” e istruire così un procedimento presso la Corte internazionale di Giustizia. I tempi rischiano però di essere lunghissimi e il ricorso alla giurisdizione internazionale potrebbe essere del tutto inutile. Ipotizzare di portare al tavolo degli imputati dell’Aia paesi come Emirati Arabi Uniti o Turchia non sembra una strada percorribile. Così, all’Europa non rimane che intercettare quelle società private usate dagli stati per violare l’embargo punendole con le sanzioni stabilite dall’Onu e applicate dall’Ue.

In alcuni casi il sistema dimostra di essere efficace. Il 15 ottobre scorso, l’Ue ha congelato i beni di Yevgeny Prigozhin, proprietario del Gruppo Wagner, una compagnia di mercenari russi impiegata dal Cremlino in diversi teatri di guerra, dalla Siria all’Ucraina fino alla Libia, dove sono stati schierati a supporto delle forze di Haftar. Ora, con la decisione dell’Ue, le attività commerciali di Prigozhin in territorio europeo – almeno quelle direttamente riconducibili a lui – saranno confiscate e i suoi asset finanziari congelati. Eppure non mancano i casi in cui le sanzioni in Libia sono state eluse. Lo scorso 15 settembre il Consiglio degli Affari esteri dell’Ue ha congelato i patrimoni di tre società accusate di avere violato l’embargo dell’Onu in Libia. Tutto bene, se non fosse che una di queste si è rivelata essere una società fantasma. Oltre alla Sigma Airlines, un vettore di aerei cargo con sede in Kazakistan, e alla Avrasya Shipping, una compagnia turca che gestisce trasporto cargo, è stata sanzionata anche la Med Wave Shipping. Si tratta di una società con sedi in Giordania e in Libano, proprietaria di una sola nave, la Bana. Lo scorso gennaio, questo cargo battente bandiera libanese, scortato da due navi militari turche, aveva caricato a Mersin, in Turchia, armi, veicoli blindati e alcuni soldati. La consegna era stata regolarmente effettuata il 29 gennaio al porto di Tripoli, sotto i radar delle marine militari di mezzo Mediterraneo. Una volta scaricato il materiale, la nave aveva fatto rotta su Genova e lì, il 3 febbraio, Digos e servizi segreti italiani l’avevano sequestrata, arrestando il comandante, un libanese di nome Joussef Tartoussi, e altri quattro membri dell’equipaggio. Il giorno dopo la pubblicazione della short list con le società sanzionate dall’Ue, si è innescato un cortocircuito.

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Il governo giordano, chiamato in causa per collaborare nella concreta applicazione delle misure restrittive, ha segnalato a Bruxelles che la Med Wave non si riesce a trovare. Deifallah Fayez, portavoce del ministero degli Esteri di Amman, ha detto che la società “non è giordana, non è registrata nel paese e non se ne trovano tracce da nessuna parte nel regno”. Nella lista dell’Ue ci sono tre indirizzi dove Med Wave avrebbe le sue sedi: secondo Fayez, dalle verifiche fatte, i due uffici giordani sarebbero vuoti. Quella libanese invece rimanda all’Orient Queen Homes Building, un centro alberghiero di lusso nella downtown di Beirut, che ospita anche degli uffici. Qui ha sede anche la Abou Merhi Lines, una società di navigazione che in passato era stata a sua volta proprietaria della nave nel 2015, quando ancora si chiamava Città di Misurata. Il presidente di questa compagnia si chiama Ali Abou Merhi, un imprenditore libanese molto vicino a Hezbollah che tra il 2015 e il 2017 è finito sotto le sanzioni del Dipartimento del Tesoro Usa. Le attenzioni degli americani verso Abou Merhi erano dovute al suo coinvolgimento in un traffico di droga e riciclaggio di denaro che andava dal medio oriente all’Europa fino al Sudamerica per conto di Ayman Saied Joumaa, un narcotrafficante tuttora latitante e ricercato dall’Interpol. Dopo essere stata sanzionata dagli americani, la Med Wave scompare nel nulla: la nave Città di Misurata diventa Sham 1, e poi – nel dicembre del 2019 – Bana. Come risulta dallo storico dei registri dell’Organizzazione marittima internazionale (Iom), anche le società proprietarie cambiano continuamente, a distanza di pochi mesi: prima è la Med Wave Shipping, che poi diventa Middle East Maritime Consult, che poi, fra novembre e dicembre del 2019, torna a essere la Med Wave. L’unica nave inclusa nella flotta è sempre e soltanto la Bana.

Abou Merhi ha rifiutato di parlare al Foglio, ma qualche mese fa, intervistato da un canale televisivo libanese, ha ammesso che la Bana era effettivamente di sua proprietà. Peccato che il suo nome non sia né direttamente né ufficialmente ricollegabile alla Med Wave. Per questo motivo gli altri asset dell’imprenditore libanese – proprietario di altre compagnie marittime, sia da turismo sia cargo, e con interessi in Germania e in Grecia – non sono stati congelati dall’Ue. “E’ del tutto plausibile che si tratti di società fantasma, un sistema di scatole cinesi”, dice al Foglio una fonte vicina al caso e che preferisce restare anonima. Secondo Enzo Fogliani, avvocato specializzato in Diritto penale marittimo, si tratta di un escamotage piuttosto comune nel settore marittimo, in particolare per quelle compagnie che intendono sottrarsi a misure restrittive decise per punire i traffici illeciti. “Spesso le società decidono di crearne altre con una sola nave nella loro flotta per evitare di correre troppi rischi e di esporre troppi asset”, spiega il legale. Una volta sanzionate dall’Ue, le navi non possono più attraccare nei porti dei paesi membri. Ma anche in questo caso, continua Fogliani, l’applicazione delle misure restrittive non è sempre accurata: “A volte riescono ad approdare lo stesso. Non è detto che tutte le autorità portuali si mettano a controllare se ci siano sanzioni pendenti a carico di ogni singola nave che si presenta al molo”. I sotterfugi usati per eludere le sanzioni europee sono noti anche a Bruxelles. Una fonte diplomatica che ha seguito da vicino il dossier del Consiglio dei ministri degli Affari esteri ammette al Foglio che “spesso in questi casi si tratta di società fantasma”. Francesco Giumelli, professore di Relazioni internazionali all’Università di Groningen, è uno dei massimi esperti di sanzioni e da anni studia i limiti nella loro applicazione. Giumelli dice al Foglio che il congelamento degli asset finanziari e la confisca dei beni non devono essere visti solamente come mezzi di coercizione: “Sono anche strumenti che rivestono un significato politico e che servono a disincentivare quei comportamenti che violano il Diritto internazionale. Servono a dimostrare che la comunità internazionale è vigile”. Ma nel concreto, come dimostra la vicenda della Med Wave, le misure hanno spesso un impatto minimo. Il vero nodo nella questione delle sanzioni è un altro, spiega Giumelli: “Chi monitora la loro effettiva applicazione? Nel caso libico, che comunque non è isolato, uno dei limiti è che coloro che devono applicare le sanzioni alla fine sono gli stessi che le violano”.

 

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