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Le bugie di Trump no, quelle sull’Olocausto sì? Il Senato americano strapazza Big Tech

Cecilia Sala

Di fronte alla commissione per il Commercio le testimonianze di Zuckerberg, Dorsey e Pichai, che i repubblicani accusano di tifare Biden e censurare Trump. Ma chiunque sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, il settore Big Tech non dorme sonni tranquilli

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Gli ultimi giorni di campagne elettorale per decidere il prossimo presidente degli Stati Uniti i senatori repubblicani li stanno utilizzando per dichiarare guerra ai social. Questo genere di polemiche non sono una novità, i precedenti riguardano i post pubblicati da Trump e parzialmente oscurati causa incitamento alla violenza o bannati perché minimizzavano i pericoli del Covid. Sono accuse che i rappresentati di Facebook e Twitter si sono rifiutati di commentare, almeno fin quando hanno potuto. Giovedì i senatori repubblicani, che controllano la commissione Giustizia al Senato, sono passati all’azione.

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Gli ultimi giorni di campagne elettorale per decidere il prossimo presidente degli Stati Uniti i senatori repubblicani li stanno utilizzando per dichiarare guerra ai social. Questo genere di polemiche non sono una novità, i precedenti riguardano i post pubblicati da Trump e parzialmente oscurati causa incitamento alla violenza o bannati perché minimizzavano i pericoli del Covid. Sono accuse che i rappresentati di Facebook e Twitter si sono rifiutati di commentare, almeno fin quando hanno potuto. Giovedì i senatori repubblicani, che controllano la commissione Giustizia al Senato, sono passati all’azione.

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Hanno minacciato i ceo dei principali social media, Mark Zuckerberg di Facebook e Jack Dorsey di Twitter, autorizzando ordini coattivi nei loro confronti se non si fossero presentati spontaneamente per testimoniare. Dall’accusa di aver ostacolato la libertà d’espressione di un partito e del suo candidato alla presidenza durante le ultime settimane di campagna, Zuckerberg, Dorsey e l’ad di Google Sundar Pichai si sono dovuti difendere anche ieri di fronte alla commissione del Senato per il Commercio. Il faccia a faccia si è tenuto in videoconferenza, in un clima di addebiti incrociati su chi sia il responsabile della disinformazione in rete e, soprattutto, su chi stia condizionando la campagna elettorale con mezzi impropri.

 

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Tra molte domande generiche e qualche risposta elusiva, ci sono stati alcuni interventi più incisivi. Il senatore Cory Gardner ha incalzato Jack Dorsey – apparso in abbigliamento casual con un semplice “jack” come sottopancia – chiedendogli se credesse o meno all’Olocausto. Visto che Dorsey ci crede, Gardner ha proseguito: “Perché i post che negano l’Olocausto non sono segnalati come falsi mentre lo sono quelli del presidente?”. Dorsey ha replicato che la policy di Twitter non prevede di combattere la disinformazione in generale, ma solo in alcuni settori, tra cui l’emergenza sanitaria e la manipolazione delle informazioni durante le campagne elettorali.

 

A Zuckerberg è stato chiesto quanti post elettorali fossero stati pubblicati sulla sua piattaforma, non ha saputo rispondere, ma si tratta di oltre due miliardi. Visto che le regole di Facebook prevedono che siano tutti preventivamente “verificati”, gli è stato domandato come facciano a controllarne così tanti, Zuckerberg ha detto che di questo si occupa in larga parte l’Intelligenza artificiale. In realtà un’indagine degli attivisti di Avaaz ha recentemente dimostrato che non sono in grado di monitorarli tutti. La senatrice Klobuchar ha quindi chiosato che potrebbero spostare un po’ delle ingenti risorse attualmente destinate all’attività di lobbying a Washington sul fronte della trasparenza.

 

Infine, gli animi repubblicani si sono scaldati sulla censura di un’inchiesta del New York Post sul figlio di Joe Biden. Facebook e Twitter avevano adoperato i rispettivi codici per la tutela degli utenti rendendo tecnicamente impossibile condividere il link del Nyp sulle piattaforme, era la prima volta che impedivano a una storia proveniente da un media mainstream di circolare. Lo “scoop” citava email non verificate, poi misteriosamente finite nelle mani della campagna repubblicana. A giustificare la prudenza, c’è anche un’indagine dell’FbI per scoprire se le mail siano state fabbricate nell’ambito di un’operazione d’intelligence straniera.

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Tutto ciò è avvenuto in un contesto che, per le potenze della Silicon Valley, si fa ogni giorno più difficile da entrambi i lati dell’oceano Atlantico. È notizia di ieri che l’Antitrust europea ha aperto un’istruttoria per abuso di posizione dominante contro Google, la settimana scorsa il governo americano aveva fatto causa alla stessa società per concorrenza sleale. C’è poi la messa in discussione della Section 230, grazie alla quale i “giganti del web” non devono rispondere legalmente dei contenuti creati dai loro utenti.

 

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A breve, però, potrebbe cambiare qualcosa: il dipartimento di Giustizia mira a una riforma dell’immunità dopo che a maggio un ordine esecutivo della Casa Bianca aveva dato mandato di vincolare tale “privilegio” a nuovi e più stringenti requisiti. Questa volta l’impulso è arrivato dall’amministrazione Trump, ma l’operazione era già stata proposta da Elisabeth Warren durante le primarie democratiche e adesso la sta prendendo in seria considerazione anche Joe Biden. Chiunque sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, il settore Big Tech non dorme sonni troppo tranquilli.

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