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contro l'eredità di Pinochet

Un anno di coprifuoco in Cile

Le proteste sono iniziate il 18 ottobre del 2019 e oggi si vota per cambiare la Costituzione del 1980

Cecilia Sala

Ritratto di un paese che brucia, in cui lo stato di emergenza iniziato per le manifestazioni è stato prolungato per l'epidemia, e di una generazione giovane e istruita che vuole fare i conti con la storia

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Il termine “coprifuoco” è ansiogeno, forse inappropriato per indicare misure che, a oggi, impongono la sola chiusura di locali e luoghi di aggregazione alle undici di sera o a mezzanotte. Il “coprifuoco” così inteso, è comunque il tema di cui discute più della metà del mondo, compresi noi italiani, quale migliore ipotesi per fermare la seconda ondata dell’epidemia senza chiuderci in casa come a marzo. Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico c’è però un paese dove questo linguaggio bellico è stato usato di recente con un significato più vicino a quello originale. In Cile il coprifuoco è un rumore di sottofondo a cui fare l’abitudine ormai dal 19 ottobre 2019, quando sono state sospese alcune libertà. I cittadini non sarebbero più potuti uscire dalle loro abitazioni tra le nove di sera e le sette della mattina. Vita sociale circoscritta oltre a seri disagi per i lavoratori che, partendo dalla periferia o dalla provincia per raggiungere le metropoli, sarebbero dovuti uscire di casa all’alba. All’epoca, il termine SARS-CoV-2 non era ancora stato coniato. Quello di ottobre 2019, per il Cile, era il primo coprifuoco dai tempi della dittatura di Augusto Pinochet Ugarte. Epoca in cui, in particolare durante i momenti più turbolenti degli anni settanta, se prendevi la macchina di sera i militari ti potevano sparare senza preavviso. Quello disposto il 19 ottobre dell’anno scorso è uno stato di emergenza che, con qualche breve interruzione, non cessa ormai da un anno. Alla fine dell’autunno era stato deciso per le oceaniche manifestazioni di piazza e i disordini che sono seguiti, alla fine dell’inverno è stato prolungato per l’epidemia, e non solo per quella. 

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Il termine “coprifuoco” è ansiogeno, forse inappropriato per indicare misure che, a oggi, impongono la sola chiusura di locali e luoghi di aggregazione alle undici di sera o a mezzanotte. Il “coprifuoco” così inteso, è comunque il tema di cui discute più della metà del mondo, compresi noi italiani, quale migliore ipotesi per fermare la seconda ondata dell’epidemia senza chiuderci in casa come a marzo. Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico c’è però un paese dove questo linguaggio bellico è stato usato di recente con un significato più vicino a quello originale. In Cile il coprifuoco è un rumore di sottofondo a cui fare l’abitudine ormai dal 19 ottobre 2019, quando sono state sospese alcune libertà. I cittadini non sarebbero più potuti uscire dalle loro abitazioni tra le nove di sera e le sette della mattina. Vita sociale circoscritta oltre a seri disagi per i lavoratori che, partendo dalla periferia o dalla provincia per raggiungere le metropoli, sarebbero dovuti uscire di casa all’alba. All’epoca, il termine SARS-CoV-2 non era ancora stato coniato. Quello di ottobre 2019, per il Cile, era il primo coprifuoco dai tempi della dittatura di Augusto Pinochet Ugarte. Epoca in cui, in particolare durante i momenti più turbolenti degli anni settanta, se prendevi la macchina di sera i militari ti potevano sparare senza preavviso. Quello disposto il 19 ottobre dell’anno scorso è uno stato di emergenza che, con qualche breve interruzione, non cessa ormai da un anno. Alla fine dell’autunno era stato deciso per le oceaniche manifestazioni di piazza e i disordini che sono seguiti, alla fine dell’inverno è stato prolungato per l’epidemia, e non solo per quella. 

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Le proteste erano cominciate il 18 ottobre 2019, con un ragazzo che saltava il tornello della metropolitana in protesta con il rincaro del biglietto, ed erano finite con tre morti e danni per 200 milioni di dollari in ventiquattro ore. Erano state incendiate le stazioni del trasporto pubblico, le devastazioni sarebbero poi continuate nelle settimane successive insieme ai saccheggi di negozi e supermarket. Era andata in fiamme anche l’intera palazzina dell’Enel nel pieno centro della capitale Santiago. Il presidente Sebastián Piñera non aveva fatto del proprio meglio per riportare la pace: “Siamo in guerra”, disse rivolgendosi contro le centinaia di migliaia di manifestanti sparsi in tutto il paese. A sua moglie, Cecilia Morel, sfuggì: “Sono alieni, noi non abbiamo proprio gli strumenti per combatterli, questa volta ci toccherà diminuire i nostri privilegi e condividerli con loro”. Il giorno dopo il governo di Piñera aveva decretato il coprifuoco. A quel punto, carri armati e blindati dell'Esercito avevano preso possesso delle strade e delle piazze per presidiarle, scontrarsi con i manifestanti e vigilare sul rispetto della nuova misura. 

 

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Se guerra c’è stata, come prometteva il presidente, forse oggi si avvicina l’armistizio. Oggi si tiene il referendum costituzionale per cambiare la Carta in vigore dal 1980, quando la dittatura di Pinochet non era ancora finita. L’imponente movimento cileno ha raggiunto grandi risultati in questo anno di mobilitazioni, dai provvedimenti sulle pensioni a quelli sui salari, ma il più importante è il plebiscito che mette in discussione la legge fondamentale. Gli elettori decideranno anche, con il proprio voto, chi dovrà scrivere la nuova Carta, se un’assemblea di 155 cittadini appositamente eletti, senza la presenza di uomini delle istituzioni, o una mista di 172 membri, composta in egual misura da parlamentari e cittadini senza incarichi. Lo stato di eccezione sarà comunque in vigore su tutto il territorio, ma il governo ridurrà le limitazioni dovute al coprifuoco per consentire alle persone di recarsi alle urne. Per votare, in via eccezionale, si potrà uscire dalle quattro del mattino e si potrà rientrare fino all'una di notte del lunedì. Ma le organizzazioni per l’approvazione della nuova Carta pretendono anche che i trasporti pubblici siano gratuiti quel giorno, per incentivare al voto e per celebrare l’anniversario di una protesta nata grazie a un ragazzo che salta il tornello in una fermata della metropolitana di Santiago. 

 

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Durante questa settimana, a un anno esatto dall’inizio delle mobilitazioni - che non si sono mai del tutto fermate - abbiamo visto campanili neogotici ottocenteschi implodere divorati da fiamme dolose e carabineros buttare giù da un ponte sul fangoso fiume Mapocho un ragazzino di sedici anni. La percezione, si sa, è diversa dalla realtà. Ma anche la realtà non è semplicissima da definire con rigore, secondo categorie condivise. Uno dei nemici giurati dei manifestanti cileni, che nella stragrande maggioranza sono giovani, è il modello economico in cui sono nati e cresciuti: il “neoliberismo”. Per Isabel Allende, scrittrice e nipote del presidente socialista deposto con il golpe di Pinochet nel 1973, le rivolte sono la conseguenza diretta di "terribili disuguaglianze”, un'implosione del sistema che non si poteva evitare in un paese dove “l'1 per cento della popolazione detiene il 26,5 per cento della ricchezza totale", che è “interamente nelle mani di poche famiglie”.

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La premessa cui non possiamo prescindere è che in Cile il sistema economico assomiglia più a quello delle grandi economie occidentali - in particolare quelle anglosassoni - che non a quello dei vicini latinoamericani, dall’Argentina alla Bolivia. Paesi in cui, senza arrivare a casi estremi come Cuba o il Venezuela, la presenza dello Stato in economia si fa sentire non poco. Questo - stando ai dati Ocse - sembra aver contribuito a una crescita economica relativamente stabile, aver ridotto la povertà, e aver dato ai cileni un pil pro capite superiore di oltre dieci punti a quello di altre grandi economie della regione come quella messicana e quella brasiliana, ma le liberalizzazioni e le privatizzazioni potrebbe aver acuito le diseguaglianze, e con esse la frustrazione. 

 

(http://www.oecd.org/economy/chile-economic-snapshot/)

 

Nella classifica Ocse (si veda il secondo grafico) il Cile è sopra di una posizione agli Stati Uniti d’America, ha pertanto un problema di inequality serio, e ne ha altri, per esempio l’indebitamento privato. L’accesso al credito a quelle latitudini è semplice e richiede poche garanzie, se ne è fatto largo uso, anche sulla scia dell’entusiasmo di chi vedeva migliorare il proprio benessere di anno in anno grazie a una crescita economica sostenuta, ma oggi le famiglie si ritrovano a usare il 75 per cento del proprio reddito per ripagare quei debiti. Sono questioni urgenti e rilevanti, eppure, se non vogliamo fare la figura degli ingenui, dobbiamo ricordarci dove siamo. Siamo in America Latina, il subcontinente dove la “forbice” tra ricchi e poveri è la più grande - cioè la peggiore - del pianeta. Le disuguaglianze in Cile sono comunque inferiori a quelle di tutti gli altri paesi centro e sudamericani presi in considerazione dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, cioè Brasile, Messico, Costa Rica e Colombia. In Brasile, per fare un esempio, ci sono ancora oggi cinquanta milioni di lavoratori in nero alla giornata. La Colombia poi vince con distacco il premio “Disuguaglianze”, ed è in una situazione drammatica, basti pensare che oltre il 10 per cento della popolazione ha bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere. Sommando problemi a problemi, ricordiamo che non di rado - lo abbiamo visto anche durante la pandemia - a fornire tali aiuti siano le organizzazioni del narcotraffico.

 

La contestazione del modello economico cileno nasconde probabilmente il rancore verso un’imposizione, un modello ereditato dopo essere stato calato dall’alto, un difetto di legittimità. In Cile, infatti, non solo la Costituzione risale all’epoca di Pinochet, anche i privilegi dei militari e il modello economico “neoliberista”. Tutti questi aspetti erano rimasti sostanzialmente immutati fino alle proteste, che ora al periodo dittatoriale impongono di fare i conti con la storia.

 

 

Il boom economico non è un processo iniziato negli anni ‘90 con la ritrovata democrazia. In realtà, è un processo iniziato durante la dittatura. È stato Augusto Pinochet, insieme al suo ministro del Lavoro e delle Miniere José Piñera, fratello dell’attuale presidente Sebastian, a gettare le basi di quanto è avvenuto dopo. Lo ha fatto con le sue “Sette modernizzazioni”, che hanno trasformato completamente l’economia cilena e dato inizio alle liberalizzazioni e alle privatizzazioni, a cominciare dall’AFP, l’introduzione del sistema pensionistico privato basato sulla capitalizzazione individuale. 

 

 

Il Cile che brucia è la fotografia di una resa dei conti con il passato e, allo stesso tempo, quella di una rivoluzione generazionale. Con una “classe” - quella di chi ha meno di quarant’anni - che vuole contare di più e che, a differenza di altri paesi tra cui il nostro, ha i numeri per farlo. Sappiamo che la demografia mostra implacabilmente come l’Italia sia un paese vecchio, il Cile è invece un paese giovane. Nell’analisi di queste proteste ci stavamo forse perdendo un tassello importante, questo. Se le famiglie dei giovani in piazza sono così indebitate è anche perché le università cilene sono tra le più costose del mondo, eppure gli studenti cileni proseguono il percorso di formazione più di quanto non facciano quelli italiani, gli iscritti all’università sono - in proporzione - più che in Italia, e alla fine del tragitto si affacciano in un mondo del lavoro meno precario del nostro. I giovani cileni sono molti e molto istruiti, se oggi bisogna fare i conti con la storia, pretendono di essere loro a farli. Con la propria cultura politica, i propri ideali e i propri interessi. Lo ha spiegato per primo Manuel Canales, sociologo e professore della Universidad de Chile: “I giovani professionisti frustrati sono la coscienza sociale del movimento popolare del 2019. Hanno studiato, affogano nei debiti per pagarsi la laurea, ma è grazie all’educazione se parlano il linguaggio della scienza e della legge, grazie all’educazione hanno preso coscienza dell’ingiustizia di una società dove le relazioni contano più di titoli di studio e sacrifici. E con la protesta del 2019 hanno realizzato che il loro malessere non è un fallimento individuale, ma un fatto collettivo. La protesta li ha liberati dal senso di colpa, da debitori sono diventati creditori”. Se oggi il plebiscito porterà a una nuova Costituzione, e se dalle urne emergerà che per scriverla sarà formata una Costituente di 155 cittadini che in gran parte hanno meno di quarant’anni, senza la presenza di uomini delle istituzioni, forse dovremo iniziare a definire quello che è successo nell’ultimo anno di coprifuoco in Cile usando la parola “rivoluzione”.  

 

(foto di Cecilia Sala, Santiago, ottobre 2019)

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