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Un dibattito normale

Luciana Grosso

Cosa hanno detto e cosa non hanno detto Donald Trump e Joe Biden, i due candidati alla Casa Bianca. E cosa è vero, cosa è così così, e cosa invece è palesemente falso. 

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Mancano 12 giorni alle elezioni e questa notte c’è stato l’ultimo dibattito tra i candidati. Se dovessimo riassumere il loro incontro/scontro in un tweet scriveremmo “Trumpe e Biden ascoltano i loro consiglieri”. Sì perché (ed è una buona notizia) i due candidati ieri si sono comportati come se per settimane avessero dovuto partecipare a riunioni su riunioni con consiglieri, strateghi e spidocros e che, abbiano, finalmente, fatto loro i consigli ricevuti. Consigli uguali e contrari, per altro, visto che uguali e contrari sono anche i due candidati e uguali e contrari sono anche gli elettorati a cui si dovevano rivolgere. 

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Mancano 12 giorni alle elezioni e questa notte c’è stato l’ultimo dibattito tra i candidati. Se dovessimo riassumere il loro incontro/scontro in un tweet scriveremmo “Trumpe e Biden ascoltano i loro consiglieri”. Sì perché (ed è una buona notizia) i due candidati ieri si sono comportati come se per settimane avessero dovuto partecipare a riunioni su riunioni con consiglieri, strateghi e spidocros e che, abbiano, finalmente, fatto loro i consigli ricevuti. Consigli uguali e contrari, per altro, visto che uguali e contrari sono anche i due candidati e uguali e contrari sono anche gli elettorati a cui si dovevano rivolgere. 

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Così Joe Biden, la cui missione, confortata dai sondaggi che lo vedono avanti, era semplicemente quella di non commettere errori e non farsi mangiare in testa dalla veemenza di Donald Trump, è stato più aggressivo e ficcante di quanto non sia stato nel corso del primo dibattito, riuscendo forse a convincere qualche elettore di sinistra che lo considerava troppo moderato, centrista e forse persino vecchio.

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Allo stesso e opposto modo Donald Trump, la cui missione era recuperare il voto moderato, è stato più urbano ed educato: non ha interrotto, non ha sbuffato, non ha alzato gli occhi al cielo.

 

Entrambi poi, chi più (Trump) chi meno (Biden) hanno giocato la carta delle bugie, che non si dicono ma che funzionano, specie in campagna elettorale, perché addomesticano la realtà e nutrono chi non va a controllare.

 

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Così, le pagine di fact checking (qui e qui, per esempio) nelle ore successive al dibattito si sono riempite di appunti e riletture di quello che i due candidati hanno o non hanno detto. Di quello che era vero, quello che era così così, e quello che invece era palesemente falso. 

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Nella colonna di “falso”, per esempio sono finite parecchie affermazioni sul tema doloroso e scottante del covid: Biden ha detto che gli stati in cui la crisi è gestita peggio sono stati quelli a guida repubblicana (il che è solo parzialmente vero), Trump ha detto che la crisi sta passando, che se ne vede la fine (dove?), che i suoi rapporti con Anthony Fauci sono ottimi (“Penso che sia un democratico ma è ok. Anche lui, del resto, dice che la mascherina non serve a niente”) e che la sua gestione delle crisi è stata ottima proprio perché non è stata affatto oppressiva (“i democratici vorrebbero tenerci tutti chiusi in uno scantinato, come sta facendo Joe da mesi. Ma lui può permetterselo, si vede cha ha soldi, la gente normale no”). Inoltre, ha rincarato la dose, dicendo che oltre che la salute degli americani lui sta cercando di tutelarne anche i lavoro e la prosperità (il ché una tesi che piace molto ai sostenitori di Trump – preoccupati più dell’economia che della malattia – ma non è del tutto vera: FiveThirtyEight ha chiesto a 32 macroeconomisti come sarebbero andate le cose per l’economia e il lavoro se ci fosse stato un lockdown più duro e il 74 per cento di loro ha risposto “meglio”). Il presidente in carica ha poi detto che ogni sua azione sulla sanità c’è sempre stata e sempre ci sarà la tutela dei pazienti con condizioni preesistenti il che (spiace) ma non è vero: sia perché in quattro anni non ha fatto nulla per al tutela di pazienti con condizioni preesistenti, sia perché buona parte dei suoi sforzi sono stati rivolti a smantellare ObamaCare, che di quei pazienti si occupa. 

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Nella colonna delle affermazioni così così, è finita buona parte del dibattito sui temi razziali: Trump ha detto una panzana colossale quando ha detto di essere stato il “Presidente che, dopo Lincoln, ha fatto di più per la comunità nera” e Biden, che pure è molto popolare tra gli afroamericani, si ritrova a fare i conti con il fatto di aver votato, in passato, per la legge sulla criminalità che ha colpito soprattutto quella comunità e ha portato alla crescita esponenziale delle loro detenzioni.

  

Anche tutta la questione legata al computer di Hunter Biden e alla sua presunta corruzione da parte di Russia e Cina è da ‘così così’. Sia chiaro la faccenda, almeno per quel che se ne sa ora, è una bufala completa, ma è un fatto che Hunter Biden, il suo passato di droga e il suo lavoro in Ucraina sono un punto debole del candidato democratico. Non a caso Trump ha affondato i denti lì. Non a caso Biden lì si è difeso con più forza, anzi, ha addirittura attaccato visto che ha tirato fuori per primo, prima che lo facesse Trump, la faccenda Hunter-computer-Giuliani (chiaramente un consiglio da strateghi, così da mostrare di non avere nulla da nascondere) ed è riuscito a rivoltare la faccenda contro Trump, dicendo che si tratta della solita montatura delle propaganda guidata dalla russia che lo sostiene e spalleggia. Probabilmente è vero, su Hunter Biden e sul fatto che abbia agito in modo scorretto non c’è uno straccio di prova, e tutta la faccenda del computer appare una montatura senza nè capo nè coda. Ma se Biden ha un punto un punto debole, è suo figlio. Hunter potrebbe essere, nel 2020 per Biden, quello che sono state le  le mail per Hillary nel 2016 (altra faccenda senza né capo nè coda, per altro).

 

Così come pure nella categoria delle cose vere ma discutibili è finita anche la spinosa e dolorosa questione dei bambini separati dalle famiglie migranti sul confine con il Messico: 545 minori, anche di pochissimi anni, tolti a genitori che poi non si è più stati in grado di rintracciare. Una storia tremenda, sulla quale Joe Biden si è (giustamente) infervorato, perché contraria a ogni minimo senso di diritti umani e di umanità (un fervore, quello di Biden, dinanzi al quale sono parse risibili le giustificazioni di Trump  “Ehi, qui bambini sono in strutture dedicate a loro, molto belle e molto pulite, dovreste vederle”). Ma anche una storia che affonda le sue radici nell'amministrazione Obama, perché le gabbie, ossia le celle in cui sono stati rinchiusi i bambini, sono state pensate e costruite da Obama (che però le ha usate in rarissimi casi e solo per i bambini che si pensava fossero vittima di tratta). 

 

Nella colonna delle cose vere senza ombra di dubbio, invece mettiamo gli appelli di chiusura. L’ultima domanda della (ottima) moderatrice Kristen Walker è stata, “Immaginate che sia il 20 gennaio e di dover fare il discorso di insediamento. Cosa direste a chi non vi ha votato?”. Qui, al di là del bilancino delle prove, dei fact checking, delle tasse pagate in Cina o non pagate affatto, di quel che hanno fatto o non fatto i loro figli, della coerenza nel rispondere alle domande, di quel che è il loro record politico e amministrativo, persino al di là delle parole che hanno usato, Trump e Biden hanno dovuto, per forza, mostrare la loro visione, la loro stoffa, la loro volontà.

 

Trump ha detto, più o meno, “Se non fosse stato per il coronavirus oggi saremmo tutti più ricchi e staremmo tutti meglio di prima. Io governerò per farvi stare ancora meglio”. Biden invece ha parlato di unità, di America come Paese intero e non come agone di fazioni contrapposte, di strade da fare insieme, di scopi da cercare insieme. 

 

E questa differenza di stoffa, di visione, di volontà e di umanità è qualcosa che non si misura con il fact checking e nemmeno con i voti. È una cosa che si vede e basta. 

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