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Lezioni dall’anno 2000

Simona Siri

I protagonisti delle elezioni Bush vs Gore ci raccontano le notti di tribunali, riconteggi e schede “a farfalla”. Ecco cosa fare per evitare che accada di nuovo (in assenza di galanteria)

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Cinquecentotrentasette. Sono i voti che alle elezioni presidenziali americane del 2000 il repubblicano George W. Bush prese in più rispetto al democratico Al Gore in quelle che ancora oggi sono considerate le elezioni più folli e combattute della storia americana. Un risultato arrivato il 26 novembre, tre settimane in ritardo, dopo trentasei giorni di drammi e patimenti per stabilire a chi sarebbe andato lo stato della Florida con i suoi 25 electoral votes e con essi la presidenza degli Stati Uniti. Trentasei giorni di riconteggi, accuse di frode, soppressione del voto, di termini come “hanging chads” e “butterfly ballots” che diventano di uso comune, di azioni legali e di corti che si riuniscono. Per molti, quello che è accaduto nel 2000 è un anticipo di ciò che potrebbe succedere il prossimo tre novembre. Secondo le previsioni, Donald Trump potrebbe risultare vincitore temporaneo la notte stessa delle elezioni, grazie ai voti dati di persona dai repubblicani che, incuranti della pandemia, si recherebbero ai seggi il giorno stesso. Con lo spoglio però dei voti dati per posta – si calcola il 60 per cento e a maggioranza democratica, perché è considerato l’elettorato più propenso a non rischiare di contrarre il coronavirus – il verdetto del tre novembre potrebbe essere ribaltato, sempre che i voti arrivati per posta siano considerati validi (Trump ha già detto di no, che non bisogna contarli, che il voto per posta facilita la frode, affermazioni che però non trovano riscontro nei dati).

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Cinquecentotrentasette. Sono i voti che alle elezioni presidenziali americane del 2000 il repubblicano George W. Bush prese in più rispetto al democratico Al Gore in quelle che ancora oggi sono considerate le elezioni più folli e combattute della storia americana. Un risultato arrivato il 26 novembre, tre settimane in ritardo, dopo trentasei giorni di drammi e patimenti per stabilire a chi sarebbe andato lo stato della Florida con i suoi 25 electoral votes e con essi la presidenza degli Stati Uniti. Trentasei giorni di riconteggi, accuse di frode, soppressione del voto, di termini come “hanging chads” e “butterfly ballots” che diventano di uso comune, di azioni legali e di corti che si riuniscono. Per molti, quello che è accaduto nel 2000 è un anticipo di ciò che potrebbe succedere il prossimo tre novembre. Secondo le previsioni, Donald Trump potrebbe risultare vincitore temporaneo la notte stessa delle elezioni, grazie ai voti dati di persona dai repubblicani che, incuranti della pandemia, si recherebbero ai seggi il giorno stesso. Con lo spoglio però dei voti dati per posta – si calcola il 60 per cento e a maggioranza democratica, perché è considerato l’elettorato più propenso a non rischiare di contrarre il coronavirus – il verdetto del tre novembre potrebbe essere ribaltato, sempre che i voti arrivati per posta siano considerati validi (Trump ha già detto di no, che non bisogna contarli, che il voto per posta facilita la frode, affermazioni che però non trovano riscontro nei dati).

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Una impasse potenzialmente ancora peggiore di quella del 2000 per due motivi. Primo, il clima molto più polarizzato rispetto a due decenni fa, quando tutti i protagonisti si comportarono in maniera più o meno educata. Secondo, il fatto che all’epoca nessuno aveva messo in preventivo che le elezioni si sarebbero decise per una manciata di voti: furono tutti colti impreparati. Oggi sono mesi che si parla di elezioni “too close to call” e di riconteggi, con il vantaggio (o lo svantaggio) che i due schieramenti stanno da tempo armando i loro team legali (si conta che Joe Biden sia arrivato a più di ottocento avvocati) e che nessuna mossa rimarrà intentata. “Non solo, quest’anno potrebbe accadere in più di uno stato e quindi con un numero maggiore di cause legali e tribunali coinvolti”, ci dice al telefono Joe Lieberman che nel 2000 era il candidato alla vicepresidenza. Per lui e Al Gore e i loro team (disclosure: mio marito Dan Gerstein allora era il suo direttore della comunicazione) le porte della Casa Bianca si aprono per poche ore quando, la notte del sette novembre, alcune televisioni rivelano in anticipo che Gore era dato per vittorioso in Florida. Una notte che Lieberman ricorda come “una corsa sulle montagne russe. Prima ci diedero la Florida, poi dissero che eravamo testa a testa, poi fecero inversione e la diedero a Bush, e poi tutti convennero che i voti di differenza erano troppo pochi per poter stabilire un vincitore. E da lì iniziò la controversia”. Leggenda vuole che la moglie di Lieberman, Hadassah, rientrando in albergo quella sera, dal nervoso spaccò un vaso di fiori con una manata.

 

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Eli Attie, all’epoca speechwriter di Al Gore, quella sera elettorale la ricorda così: “Per pura coincidenza fui la prima persona a dire ad Al Gore che la situazione in Florida era cambiata”, racconta al telefono da Los Angeles dove ora vive facendo lo sceneggiatore (lo è stato anche della serie tv “West Wing”, a dimostrazione del fatto che spesso la realtà supera la fantasia). “Avevo già scritto il discorso con cui Gore concedeva la vittoria a Bush, lui lo aveva approvato ed era già stato caricato sul teleprompter. Sulla strada per il War Memorial di Nashville, dove Gore avrebbe dovuto parlare, a un certo punto arriva una chiamata sul cellulare di Bill Daley (chairman della campagna, ndr) che ci dice: ‘Nel 99 per cento delle circoscrizioni in Florida siamo indietro di soli 600 voti. Significa che ci sarà un riconteggio elettronico automatico’. Carter Eskew (chief strategist di Gore, ndr) allora si gira verso di me e dice: ‘Mi sa che dobbiamo cambiare il linguaggio del discorso””. In quel momento Gore aveva già chiamato Bush per congratularsi per la vittoria e nessuno sa se quella telefonata ha valore legale. “Non avevamo idea di quello che stava succedendo”, ammette Attie. Quando il corteo raggiunge il War Memorial è lui ad aggiornare Gore. Insieme a Daley e Eskew viene presa la decisione di richiamare Bush e di ritirare la telefonata precedente, quella delle congratulazioni. “Ovviamente ho sentito solo la parte di conversazione di Gore e ricordo chiaramente che a un certo punto disse: “Be’ non sta al tuo fratellino decidere’”. Bush dall’altra parte aveva detto che per suo fratello Jeb (all’epoca governatore della Florida, ndr) la vittoria andava a lui. “Ricordo anche che Gore gli disse: ‘Non fare lo schizzinoso’. Era tutto molto surreale. E c’era ancora da decidere che cosa avrebbe detto Gore alla folla che lo stava aspettando. Io gli consigliai di non uscire, di non rilasciare nessuna dichiarazione per non rischiare di sembrare quello che stava contestando le elezioni. Alla fine a parlare fu Daley: scrissi quel breve discorso al volo, mentre tutto intorno c’era il caos più totale”.

 

A quel punto tutto cambia, le elezioni diventano una battaglia legale. Al riconteggio automatico che dà la vittoria a Bush per soli 327 voti segue il riconteggio manuale voluto da Gore in quattro contee (Bush lo contesta, ma perde). Si scopre che nella contea di Palm Beach le particolari schede usate – cosiddette “a farfalla”, su due colonne – hanno spinto migliaia di elettori a votare involontariamente per un altro candidato, il conservatore Pat Buchanan. Anche nella contea di Duval è un pasticcio: circa 22 mila voti vengono squalificati perché gli elettori hanno scelto più di un candidato. Altrove l’apparato a schede perforate utilizzato per la rilevazione del voto a volte non è riuscito a perforare completamente un buco, e non è stato considerato valido. Gli esperti a Washington elaborano strategie, mentre sul campo, in Florida, i legali compilano citazioni in giudizio su citazioni in giudizio. “Le sfide più significative che la nostra campagna dovette affrontare in quel mese furono nei tribunali: quali casi presentare e dove e come discuterli”, racconta Lieberman. “Ma sapevamo anche che dovevamo ottenere il sostegno dell’opinione pubblica perché, nel caso avessimo vinto, dovevamo essere pronti a governare”. Michael Gerson, speechwriter di Bush, per email racconta: “Durante il riconteggio tutta l’azione fu concentrata sugli avvocati in Florida. Bush era nel suo ranch in Texas. Io ero con lui e ho lavorato a una serie di discorsi di accettazione della vittoria che però non furono mai necessari. Alla fine tornai a Washington perché il mio contratto di locazione ad Austin era scaduto”.

 

Si combatte anche contro il tempo: il collegio elettorale si deve riunire il 18 dicembre. La Corte Suprema della Florida decide in favore di Gore: il riconteggio manuale deve andare avanti, anche per quei voti – circa 60 mila – che le macchine, per qualche ragione, non sono riuscite a registrare. Bush si appella alla Corte Suprema degli Stati Uniti che decide di rivedere il caso e che l’11 dicembre, con una sentenza molto discussa, ribalta la decisione della corte della Florida e ferma di fatto il riconteggio. “Sono convinto che in Florida abbia vinto Gore”, dice Attie. “Nel senso che più persone sono entrate nel seggio con l’intenzione di votare Gore anche se poi, per motivi diversi, il voto è stato dato a Bush o non è stato considerato valido. Per senso di responsabilità e per sembrare seri e ragionevoli, abbiamo rinunciato a combattere per ogni voto, laddove i repubblicani lo hanno fatto. Non abbiamo neanche contestato i voti ‘a farfalla’. La linea della campagna a un certo punto era diventata che Gore doveva prepararsi a concedere la vittoria a Bush per il bene del paese, per salvare le istituzioni, anche se era un’ingiustizia nei suoi confronti”. E’ difficile oggi immaginare la stessa galanteria. Da mesi Trump denuncia, senza prove, i brogli per posta; Joe Biden, venerdì in un comizio, ha detto che “possiamo perdere solo se ci sono imbrogli” e Hillary Clinton gli ha consigliato di non concedere la vittoria troppo prematuramente – di non ripetere, quindi, l’errore fatto da Gore nel 2000.

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“Se gli ultimi sondaggi sono corretti, Biden vincerà con così tanto margine che non ci sarà alcuna base credibile per contestare i risultati”, conclude Lieberman. Ma se così non fosse, se Trump la sera del tre novembre avesse voti a sufficienza per dichiarare vittoria temporanea grazie al mancato conteggio dei voti per posta, allora la battaglia legale del 2000 sarebbe una commedia romantica in confronto al film horror che sarebbe trasmesso quest’anno. Dice ancora Attie: “I repubblicani si sono già dimostrati bravi a combattere senza scrupoli. Non dico di arrivare a essere come loro, ma se a questo giro vogliono vincere, i democratici devono tirare fuori le unghie. Senza infrangere la legge, senza divulgare disinformazione, ma non possono pensare di combattere da pesi piuma contro chi gioca così duro. I casi di Bill Clinton e di Barack Obama lo hanno dimostrato e dovrebbero servire da insegnamento: i democratici vincono quando organizzano campagne aggressive”.

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