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Il Covid, il virus Trump e il potere che cambia

Giuliano Ferrara

Il presidente americano ha fatto quel che ha voluto senza resistenze istituzionali efficaci. E intanto ferve la battaglia pro e contro la Costituzione com’è. Scenari poco rassicuranti

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Il potere cambia. Si trasforma anche radicalmente sotto i nostri occhi. Con la pandemia, ha notato Carlo Galli in Repubblica, le prerogative dell’esecutivo (la famosa disquisizione sui dpcm e sul controllo delle vite degli altri) si intrecciano a quelle delle Regioni, assemblee elettive e legislative territoriali immediatamente investite di responsabilità e di competenze nel governo del territorio (via ordinanze), mentre il Parlamento, una volta luogo privilegiato della decisione affidato ai partiti costituzionali, è cassa di risonanza di proclamazioni unilaterali ineffettuali. Questo per certi aspetti è un effetto necessario, conclude il politologo Galli, per un altro aspetto è un punto di domanda sul futuro dell’equilibrio che fonda lo stato nazionale, la sua unità. Da anni i segni ci sono: nordismo, federalismo e autonomismo, oltre alla dialettica pro e contro l’europeismo, fanno parte del novero. Ora i segni sono ancora più evidenti e ravvicinati, bisognerà scrutarli ancora e interpretarli.

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Il potere cambia. Si trasforma anche radicalmente sotto i nostri occhi. Con la pandemia, ha notato Carlo Galli in Repubblica, le prerogative dell’esecutivo (la famosa disquisizione sui dpcm e sul controllo delle vite degli altri) si intrecciano a quelle delle Regioni, assemblee elettive e legislative territoriali immediatamente investite di responsabilità e di competenze nel governo del territorio (via ordinanze), mentre il Parlamento, una volta luogo privilegiato della decisione affidato ai partiti costituzionali, è cassa di risonanza di proclamazioni unilaterali ineffettuali. Questo per certi aspetti è un effetto necessario, conclude il politologo Galli, per un altro aspetto è un punto di domanda sul futuro dell’equilibrio che fonda lo stato nazionale, la sua unità. Da anni i segni ci sono: nordismo, federalismo e autonomismo, oltre alla dialettica pro e contro l’europeismo, fanno parte del novero. Ora i segni sono ancora più evidenti e ravvicinati, bisognerà scrutarli ancora e interpretarli.

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Nell’Europa vecchia, tuttavia, l’esperimento ultramoderno degli stati nazionali ordinati secondo un principio sovranazionale ha avuto nuovo impulso e nuova definizione dalla pandemia, la cui serietà rischia con la seconda ondata di sopravanzare le dimensioni abnormi che aveva assunto per esempio nella giovane America. 

Ma per l’azione di contrasto furono poste per la prima volta tra Berlino e Parigi basi vere, solide, tangibili, finanziarie. Il vento del populismo aggressivo e del nazionalismo a venatura xenofoba soffia meno impetuoso. Per ora il Mose istituzionale funziona, l’acqua alta è scongiurata (dispiace per il caro Cacciari). Invece la cifra del mutamento nel potere e nella struttura costituzionale è particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove il virus ha due nomi invece che uno: Covid-19 e Donald Trump. La pandemia è un elemento decisivo nella probabile sconfitta di Trump nella lotta per un secondo mandato, ma la possibile vittoria di Biden non risolve i problemi di identità della repubblica americana. David Frum sull’Atlantic va per le spicce: ai metodi delinquenziali e autocratici di Trump nessuna divisione dei poteri, nessun bilanciamento, sono stati in grado di opporre una resistenza autocorrettiva. In questo senso, la Costituzione ha fallito il suo scopo, che era quello di impedire a un Cesare o a un Cromwell, anche in sedicesimo sociopatico come nel caso di Trump, di fare esattamente quello che voleva, coincidente alla fine con quello che poteva. Dunque c’è un serio problema nella natura della repubblica, nel suo fondamento.

Più analitico l’esame di Edward Luce, del Financial Times, ma altrettanto complicate e non rassicuranti le sia pure provvisorie conclusioni. Anche Luce parte dal fatto che Trump ha fatto quel che ha voluto, senza resistenze efficaci, ha trattato le richieste di testimonianza giurata al Congresso come “carta da cesso”, se ne è fottuto di dichiarazioni fiscali e patrimoniali, di conflitti di interessi, e anche lui sarebbe d’accordo con Frum sul fatto che ha usato in modo coscarolo il potere presidenziale di grazia, ha castigato chi si è opposto ai suoi comportamenti fuorilegge, ha incitato sistematicamente alla violenza e al rigetto di una transizione pacifica e ordinata; inoltre – e qui insiste specialmente il ragionamento di Luce – ha messo la bomba potenziale di una virata ideologico-religiosa nella Corte suprema con le nomine di Gorsuch, Kavanaugh e quella in corso di conferma di Amy Coney Barrett. Però Luce non si ferma alla denuncia del malfatto e del malfattore, e inquadra le questioni derivate dal fallimento costituzionale americano in un paesaggio più largo e maestoso.

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Alla Georgetown University, nota, Rosa Brooks fa dire agli studenti quant’è bella la Costituzione più bella del mondo, e la più antica, 233 anni. Poi replica: dunque sareste contenti di essere operati da un chirurgo che disponga dei manuali di due secoli fa o di fare una bella crociera su navi che usano carte della fine del Settecento! Dietro il suo sarcasmo c’è la battaglia pro e contro la Costituzione com’è. Leggendola nella sua letteralità e originalità, contro ogni interpretazione contestuale, come Lutero leggeva la Bibbia, per trent’anni Antonin Scalia, maestro della Coney, tra l’altro, ha segnato punti contro la cultura giuridica liberal, che la Costituzione vuole interpretarla alla luce del presente o dell’evoluzione storica del sistema e dei suoi intrinseci criteri di sviluppo etico, giuridico e funzionale. Sta di fatto, osserva Luce, che la guerra civile di secessione dell’Ottocento fu sostanzialmente provocata dalla decisione Dred Scott, cioè la pretesa della Corte suprema di negare agli schiavi liberati, abitanti in stati antischiavisti, lo status di cittadini (d’altra parte i Padri Fondatori avevano stabilito, pro bono pacis, che un negro valeva tre quinti di un essere umano). E all’origine delle leggi Jim Crow, che reinnestarono nel Novecento il segregazionismo, tradendo l’abolizionismo lincolniano che aveva vinto la guerra civile, sempre una sentenza della Corte sta. Così come altre sentenze hanno introdotto, nel nuovo contesto non originalista, la schiavitù-liberazione (dipende dal punto di vista) dell’aborto privacy, o il matrimonio omosessuale, come antidoto alla famiglia tradizionale che con gran scandalo la Coney si porta appresso alle audizioni congressuali (non è il primo caso di figura pubblica americana cum familia, se ne videro di ultraliberal).

Ora però i problemi si affollano con un certo parossismo: i presidenti cominciano troppo spesso a essere eletti dal Collegio elettorale, in spregio al voto popolare diretto, e talvolta per decisione della Corte, con il prossimo 3 novembre ci sono pericoli del genere in vista; giuristi e politologhi avvertono che tra dieci anni il 30 per cento dell’America rurale e arretrata eleggerà il 70 per cento del Senato, in virtù della prescrizione costituzionale che vuole i rappresentanti degli stati (due per ciascuno) indipendenti dal loro peso demografico, in funzione di riequilibrio territoriale; sul diritto a portare le armi e sul finanziamento ad libitum della politica non esistono limiti possibili se si legga in modo testualista o originalista la Costituzione, il che divide le opinioni parecchio; chissà se nel tentativo di impedire che la Corte conservatrice gli impedisca di governare Biden sarà costretto a abolire l’ostruzionismo in Senato e a cambiare il numero dei giudici per riequilibrare le correnti culturali e politiche dei sacerdoti del tempio, quelli che, ricorda Luce, il giurista Felix Frankfurter chiamava “veicoli impersonali della verità rivelata”, ma in realtà sono spesso consulenti di questa o quella campagna elettorale prima di divenire vestali della legge eguale per tutti e decidere sulla presidenza, eventualmente; i cambiamenti in America sono avvenuti in genere contro la Costituzione, sottilizza un giurista, modernismo contro originalismo, e si capisce visto che questa fu scritta per un paese di quattro milioni di abitanti a prevalenza rurale, e a voler dirla tutta non ha a che fare con la democrazia, mai nominata, ma con una repubblica, che è cosa ben diversa e aperta a molte contrastanti interpretazioni.

Se il catalogo è quello, anche incompleto, le exit strategy o previsioni sono paradossali e assai bizzarre. Visto che non si può cambiare la Costituzione per rimediare a queste falle, infatti ci vorrebbero i tre quarti degli stati e i due terzi delle due camere, cosa improponibile, Luce elenca, relata refert,  tre possibilità: l’America si disunisce come la Cecoslovacchia in due o tre parti oppure si fa una bella guerra civile oppure si decade, prendendo atto che i cambiamenti sono impossibili, come fece l’Impero Ottomano tra Settecento e Ottocento, bloccandosi su sé stesso fino alla Prima guerra mondiale. Thomas Jefferson, che aveva vista lunga, proclamava la necessità di una nuova Costituzione per ogni generazione. Se non si può fare, e non si può fare, mentre sinistra e destra si combattono sulla carta fondamentale senza combinare alcunché, superato lo scoglio di Trump, forse senza un colpo di stato dell’ultima ora, aspettiamo l’arrivo di Atatürk. Il potere cambia, anche troppo per i nostri gusti.

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