PUBBLICITÁ

Ai confini di Mosca

Che succede in Kirghizistan?

Mentre i kirghizi armati scendevano in piazza e svuotavano le carceri, nel territorio dell’ex Unione sovietica erano già in corso altre crisi: la Bielorussia e il Nagorno Karabakh

Micol Flammini

Le dimissioni del presidente Jeenbekov, le irruzioni dei manifestanti nei palazzi e nelle carceri, un nuovo voto da organizzare. Perché la repubblica dell’Asia centrale protesta per la terza volta in quindici anni

PUBBLICITÁ

Gli abitanti del Kirghizistan hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. Hanno ottenuto l’annullamento del risultato delle elezioni del quattro ottobre e poi hanno ottenuto anche le dimissioni del presidente Sooronbay Jeenbekov. Eppure se tutto questo porterà soltanto a una tregua o alla fine definitiva delle rivolte ancora non si sa. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Gli abitanti del Kirghizistan hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. Hanno ottenuto l’annullamento del risultato delle elezioni del quattro ottobre e poi hanno ottenuto anche le dimissioni del presidente Sooronbay Jeenbekov. Eppure se tutto questo porterà soltanto a una tregua o alla fine definitiva delle rivolte ancora non si sa. 

PUBBLICITÁ

 

I kirghizi hanno iniziato a protestare dopo i risultati delle elezioni parlamentari in cui soltanto cinque dei sedici partiti che si erano presentati erano riusciti a superare la soglia di sbarramento. La maggior parte dei voti era andata ai due partiti più vicini al presidente Jeenbekov, Birimdik (Unità) e Mekenim Kyrgyzstan (Il Kirghizistan è la mia patria). Le rivolte sono state immediate e i cittadini hanno riempito non soltanto le strade di Bishkek, ma hanno anche fatto irruzione nei palazzi delle istituzioni. Poi sono entrati nelle carceri e hanno liberato molti prigionieri, inclusi l’ex presidente Atambayev e l’ex premier Japarov. Jeenbekov aveva detto che le elezioni si erano svolte nel rispetto delle regole e della trasparenza, ma già giravano filmati che documentavano i brogli e anche il prezzo di un voto: 2.045 som, circa 21 euro e così, per la terza volta in quindici anni, i kirghizi sono riusciti a rovesciare il loro presidente. 

 

PUBBLICITÁ

Jeenbekov era diventato capo dello stato nel 2017, prendendo il posto di Atambayev, sperava di riuscire a evitare le dimissioni, nonostante i kirghizi continuassero a urlargli “Ketsin!” (vattene!). Dopo aver annullato il voto, aveva imposto lo stato di emergenza, ma alla fine ha dovuto rassegnare le sue dimissioni che tecnicamente non sarebbero valide: un presidente non potrebbe dimettersi durante lo stato di emergenza. Ha chiesto “integrità e pace” per il suo paese così instabile e ha lasciato al suo successore ad interim, Kanatbek Isaiev, il compito di organizzare il nuovo voto. "Non voglio entrare nella storia del Kirghizistan come il presidente che ha versato sangue sparando ai suoi concittadini", ha detto Jeenbekov, che adesso per molti è il presidente debole e corrotto di cui il paese è riuscito a sbarazzarsi. Alle dimissioni, tuttavia, non aveva alternative. Il Parlamento, per placare i manifestanti, aveva nominato premier Sadyr Japarov, liberato durante la rivolta popolare e suo principale avversario. 

 

Tra i paesi dell’Asia centrale, il Kirghizistan è quello che più assomiglia a una democrazia. Non ha ai suoi vertici presidenti di eredità sovietica, ci sono delle elezioni che si tengono regolarmente e se la folla manifesta, spesso ottiene ciò che vuole. Ma il paese è governato da una logica da clan, da un continuo scontro tra nord e sud e soprattutto ci sono dei gruppi armati a sostegno di questo e dell’altro politico, che in questo mese di instabilità sono riusciti anche a prendere il controllo di alcune delle miniere del paese. 

 

PUBBLICITÁ

Dopo la rivolta, i partiti di opposizione che l’hanno alimentata hanno già perso molti degli argomenti che avevano in comune, la data delle nuove elezioni parlamentari non è stata decisa, poi bisognerà scegliere un nuovo presidente e prima ancora formare una nuova commissione elettorale e lo scontro tra le fazioni è aumentato. La ragione per la quale, in questi quindici anni di proteste e rovesciamenti del potere (2005, 2010 e 2020), non si è parlato di rivoluzione è perché ogni protesta ha portato al ritorno di qualcosa che già il paese aveva conosciuto. Il sistema è sempre rimasto identico a se stesso, soltanto il peso delle varie fazioni è cambiato nel tempo. 

PUBBLICITÁ

 

Mentre i kirghizi armati scendevano in piazza e svuotavano le carceri, nel territorio dell’ex Unione sovietica erano già in corso altre crisi. Nel Nagorno Karabakh, dove continuano gli scontri tra armeni e azeri, e in Bielorussia, dove i manifestanti guardavano con stupore alla decisione del presidente Jeenbekov di annullare il voto: l’invito al dittatore Lukashenka a guardare il Kirghizistan era quasi diventato uno slogan di piazza. In tutte queste rivolte, in questi conflitti, in territori ex sovietici ma ancora di interesse russo, la Russia sembra scomparsa. A Minsk gioca a non esserci, mentre cerca di ottenere il più possibile da Lukashenka. Nel Nagorno Karabakh, dove in tutti questi anni è stata sempre in grado di contenere le rivendicazioni tra armeni e azeri, adesso sembra più preoccupata di coltivare i suoi rapporti con la Turchia, che sostiene l’Azerbaigian e, per aiutare Baku negli scontri, ha anche mandato dei mercenari dalla Siria. In Kirghizistan la Russia ha una base militare, alcuni interessi economici, che ora si sono mischiati con quelli cinesi, ma di fronte alle rivolte, dopo un primo e debole tentativo di mediazione, non è intervenuta, si è limitata ad annunciare la sospensione degli aiuti finanziari. Ma è rimasta lontana. Quasi che, di fronte a questa inquietudine ai suoi confini, la sua zona di influenza storica la interessasse un po’ meno. 

PUBBLICITÁ
Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ