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Uno studio di Adrian Zenz e un'indagine di Reuters

Pechino vuole “armonizzare” anche il Tibet dopo lo Xinjiang. Ecco le prove

La riduzione della povertà è l'obiettivo principale, ma anche il controllo delle autonomie, specialmente quelle religiose

Giulia Pompili

Secondo la ricerca, nei primi sette mesi di quest’anno almeno mezzo milione di cittadini della regione autonoma sarebbero stati sottoposti ad addestramento, “il 15 per cento del totale della popolazione”. Molti finiscono con un lavoro a bassa retribuzione come la produzione tessile, l’edilizia e l’agricoltura. L'addestramento militaresco e ideologico

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Negli ultimi mesi Pechino ha intensificato quella che sembra una “esportazione” al Tibet del modello dei campi di lavoro già usato nella regione autonoma dello Xinjiang. Centinaia di documenti governativi dimostrerebbero che la Cina ha fissato delle quote di abitanti del Tibet da sottoporre ad “addestramento” per poi essere trasferite in altre parti della Cina. E’ quanto elaborato da uno studio di Adrian Zenz, ricercatore indipendente sullo Xinjiang, e pubblicato dall’Alleanza Inter-Parlamentare sulla Cina, ma anche da un’indagine indipendente di Reuters, che ha visionato i documenti e ha sentito diverse fonti.

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Negli ultimi mesi Pechino ha intensificato quella che sembra una “esportazione” al Tibet del modello dei campi di lavoro già usato nella regione autonoma dello Xinjiang. Centinaia di documenti governativi dimostrerebbero che la Cina ha fissato delle quote di abitanti del Tibet da sottoporre ad “addestramento” per poi essere trasferite in altre parti della Cina. E’ quanto elaborato da uno studio di Adrian Zenz, ricercatore indipendente sullo Xinjiang, e pubblicato dall’Alleanza Inter-Parlamentare sulla Cina, ma anche da un’indagine indipendente di Reuters, che ha visionato i documenti e ha sentito diverse fonti.

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Nei primi sette mesi di quest’anno, scrive la giornalista Cate Cadell citando il sito internet del governo locale del Tibet, almeno mezzo milione di persone sarebbero state sottoposte ad addestramento, “il quindici per cento del totale della popolazione”. Almeno cinquantamila lavoratori sono stati trasferiti all’interno della regione autonoma sulla catena dell’Himalaya, mentre gli altri sono stati trasferiti in altre aree della Cina: “Molti finiscono con un lavoro a bassa retribuzione come la produzione tessile, l’edilizia e l’agricoltura”. L’addestramento si svolge in campi militari, dove a seguito di analisi di immagini satellitari è stata dimostrata la presenza di soldati dell’Esercito popolare di liberazione. Come per la minoranza musulmana e turcofona degli uiguri nello Xinjiang, si legge nel report, anche i documenti relativi al Tibet riportano che per trasferire i tibetani c’è bisogno di una  “‘gestione rigorosa in stile militare’ del processo di formazione professionale che induca le ‘masse a conformarsi alla disciplina’, e di ‘rafforzare continuamente la loro consapevolezza patriottica’ e conformare il loro ‘pensiero’”.  Trasformare i troppi lavoratori agricoli in forza lavoro per l’industria strategica non serve solo ad avere più manodopera. La strategia, di nuovo molto simile a quella usata nello Xinjiang, serve al Partito per controllare le province ribelli, dal punto di vista culturale e religioso, e lo fa per un obiettivo: quello della “riduzione della povertà”, uno dei punti di forza del governo autoritario di Xi Jinping, “che consiste in un programma dall’alto verso il basso che estende il controllo sociale del governo in profondità nelle unità familiari”.  

 
Il programma di Pechino nella regione autonoma del Tibet va avanti nonostante, negli ultimi mesi, la comunità internazionale abbia criticato e intrapreso azioni contro il sistema simile applicato allo Xinjiang. Gli Stati Uniti di Donald Trump, per esempio, a luglio hanno imposto sanzioni contro Chen Quanguo,  uno dei più alti funzionari di Pechino mai sanzionati da Washington. Chen è membro del politburo e segretario del Partito nello Xinjiang. E’ considerato dall’Onu l’uomo dietro alla progettazione dei campi d’internamento e le detenzioni di massa degli uiguri nello Xinjiang. Pechino non nega più che quei campi esistano – come faceva fino a qualche anno fa  – ma dice che non sono campi di rieducazione e politici, piuttosto dei luoghi dove si previene il terrorismo islamico. Prima di lavorare nello Xinjiang, Chen era segretario del Partito in Tibet e prima ancora nello Hebei, dove ha lavorato alla campagna di rieducazione dei praticanti religiosi come i Falung Gong. Sheena Greitens, docente all’Università del Texas ed esperta di autoritarismi e di Cina, ha scritto ieri su Twitter che esistono delle differenze sostanziali tra il programma nello Xinjiang e quello nel Tibet: “Le politiche delle due regioni sono sempre state diverse e continuano a esserlo. Questo non le rende meno repressive. Ma equiparare i tipi di repressione applicati potrebbe portarci a fraintendere la logica del Partito comunista cinese. Se non capiamo quella, sarà più difficile elaborare una politica di contrasto efficace”. In Tibet, per esempio, non ci sono internamenti extragiudiziali. “Quelli però hanno rappresentato una grave escalation nello Xinjiang nel marzo 2017, dopo la riunione della Commissione centrale per la Sicurezza nazionale”, scrive Greitens. Secondo la studiosa, una cosa che “il Partito ha capito dalla sua storia è che le politiche del governo centrale devono essere adattate alle condizioni locali”: il Tibet è diverso dallo Xinjiang, per ragioni geografiche, di densità abitativa, ma anche perché l’estremismo religioso è diverso. In passato ci sono stati anche attacchi terroristici in Tibet, ma oggi la protesta pubblica riguarda soprattutto monaci che si immolano. Secondo John Bolton, il presidente Donald Trump lodò Xi Jinping per aver costruito “i campi di concentramento nello Xinjiang”, e secondo vari analisti lo fece probabilmente proprio perché si tratta di una regione a maggioranza musulmana. 

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