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La variante Kenosha, Wisconsin

Daniele Ranieri

Trump non calma gli scontri e anzi eccita i suoi con il ritornello “law and order”, ma la violenza della frangia estremista che usa il Black Lives Matters come copertura rischia di avvantaggiarlo, a sessanta giorni dal voto

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Tra la notte di domenica 23 agosto e la notte di lunedì 24 agosto i razziatori hanno bruciato il grande edificio quadrangolare della Danish Brotherhood Lodge, una sala per banchetti che di solito teneva eventi di beneficenza. Hanno distrutto con il fuoco anche un negozio di materassi e una taverna lì vicino, il Mangla Wine Bar, in una zona bella nella quale i proprietari di molti negozi sono afroamericani. Hanno devastato un negozio di macchine fotografiche e la County Credit Union, una banca dal nome molto locale. Hanno bruciato un intero parcheggio di automobili che apparteneva a un concessionario che tratta auto usate, erano almeno cinquanta veicoli e adesso ci sono soltanto file e file di carcasse. Hanno bruciato anche alcuni camion della nettezza urbana, i cui resti anneriti bloccano un ingresso del tribunale. Hanno rotto le finestre di molti locali, troppi per fare una lista. Hanno sfasciato un bar e rubato tutto l’alcol, sono danni per venticinquemila euro – dice il proprietario che aveva aperto a marzo, prima della pandemia, e sembra una storia sfortunata ma è un avvertimento che riguarda milioni di americani: ci è già capitato questo disastro del Covid-19, abbiamo bisogno di stabilità. Questa è soltanto una lista sommaria dei danni – compilata grazie ai resoconti della stampa locale – fatti dalle bande di violenti arrivate a Kenosha, una città del Wisconsin, dopo che la polizia ha sparato sette colpi di pistola nella schiena di un afroamericano. Molti negozi e locali si sono salvati perché hanno scritto messaggi e slogan sui grossi pannelli di legno messi per protezione davanti alle vetrine, come si fa durante i tifoni, che avrebbero dovuto calmare o almeno sviare i violenti. “BLM”, che è la sigla del movimento Black Lives Matter. “Black-owned”, il proprietario è un nero. “Kids live upstairs”, ci sono bambini che vivono sopra questo posto che potreste voler bruciare. Josh Glancy, inviato del Times di Londra, è stato lì tre giorni e dice che tra le rovine e la fuliggine gli sembrava di stare in una zona di guerra. I locali dicono a proposito dei violenti che si trattava di gente arrivata da fuori ma su questo punto e sul loro numero non c’è certezza.

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Tra la notte di domenica 23 agosto e la notte di lunedì 24 agosto i razziatori hanno bruciato il grande edificio quadrangolare della Danish Brotherhood Lodge, una sala per banchetti che di solito teneva eventi di beneficenza. Hanno distrutto con il fuoco anche un negozio di materassi e una taverna lì vicino, il Mangla Wine Bar, in una zona bella nella quale i proprietari di molti negozi sono afroamericani. Hanno devastato un negozio di macchine fotografiche e la County Credit Union, una banca dal nome molto locale. Hanno bruciato un intero parcheggio di automobili che apparteneva a un concessionario che tratta auto usate, erano almeno cinquanta veicoli e adesso ci sono soltanto file e file di carcasse. Hanno bruciato anche alcuni camion della nettezza urbana, i cui resti anneriti bloccano un ingresso del tribunale. Hanno rotto le finestre di molti locali, troppi per fare una lista. Hanno sfasciato un bar e rubato tutto l’alcol, sono danni per venticinquemila euro – dice il proprietario che aveva aperto a marzo, prima della pandemia, e sembra una storia sfortunata ma è un avvertimento che riguarda milioni di americani: ci è già capitato questo disastro del Covid-19, abbiamo bisogno di stabilità. Questa è soltanto una lista sommaria dei danni – compilata grazie ai resoconti della stampa locale – fatti dalle bande di violenti arrivate a Kenosha, una città del Wisconsin, dopo che la polizia ha sparato sette colpi di pistola nella schiena di un afroamericano. Molti negozi e locali si sono salvati perché hanno scritto messaggi e slogan sui grossi pannelli di legno messi per protezione davanti alle vetrine, come si fa durante i tifoni, che avrebbero dovuto calmare o almeno sviare i violenti. “BLM”, che è la sigla del movimento Black Lives Matter. “Black-owned”, il proprietario è un nero. “Kids live upstairs”, ci sono bambini che vivono sopra questo posto che potreste voler bruciare. Josh Glancy, inviato del Times di Londra, è stato lì tre giorni e dice che tra le rovine e la fuliggine gli sembrava di stare in una zona di guerra. I locali dicono a proposito dei violenti che si trattava di gente arrivata da fuori ma su questo punto e sul loro numero non c’è certezza.

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Poi c’è la questione delle milizie, della gente che arriva armata e gioca al vigilante, dello squadrismo che per ora esibisce i fucili più che usarli ma un giorno potrebbe scegliere la lotta armata. Aris Roussinous, giornalista e inviato di guerra, scrive che un’eventuale guerra civile americana avrebbe la forma dei Troubles in Irlanda del nord, dove le fazioni facevano pressione sui politici e sulle forze dell’ordine, più che passare al conflitto totale. Poi ci sono la questione delle milizie, si diceva, e quella ancora più gigantesca del razzismo, ma intanto le macerie fanno scattare un riflesso negli americani: questo non si fa.

   

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Nel momento in cui i proprietari di locali scrivono BLM sul legno per essere risparmiati, è perché il pubblico americano ha cominciato a identificare tutto il movimento Black Lives Matter con la frangia violenta che distrugge gli edifici. Il problema politico è chiaro. Sappiamo che il movimento non è quella frangia violenta, ci sono state manifestazioni enormi senza alcun problema, ci sono state marce della pace, proteste silenziose, scioperi dei campioni sportivi e c’è una maggioranza di persone che non si sognerebbe mai di dare fuoco a un negozio. Non è una pietosa copertura per difendere il BLM, è matematica applicata: se soltanto un decimo dei manifestanti che in questi mesi hanno partecipato alla grande ondata di commozione nazionale fosse violento adesso gli Stati Uniti sarebbero a ferro e fuoco. E invece i problemi sono limitati e in questo momento sono circoscritti in particolare a due luoghi, Portland nell’Oregon e Kenosha nel Wisconsin, con fiammate in altri luoghi. Ma quella frangia violenta c’è. A Washington una piccola torma di esagitati ha cominciato a girare di sera fra i ristoranti all’aperto per chiedere agli avventori di unirsi ai loro slogan e di pronunciare Black Lives Matter, le vite dei neri che contano. Silence is violence, dicono, il tuo silenzio è violenza. E se un cliente, sorpreso al tavolo a mezza cena, si rifiuta, allora comincia una scenata che ha il sapore di un giudizio pubblico, coperto dalla forza del numero – questi si presentano in trenta – e di un indottrinamento coatto. Che magari uno è pure d’accordo che il razzismo è una cosa orrenda e che le vite degli afroamericani contano, ma se ti obbligano a dirlo sotto minaccia allora è aggressione. E se i compagni ideologici di queste squadre bruciano negozi, allora – è il problema chiaro menzionato prima – stanno facendo un favore al presidente Donald Trump a sessanta giorni dalle elezioni.

  

 

In questi mesi lo sfidante democratico di Trump, Joe Biden, era riuscito a fare un piccolo miracolo politico. Aveva imbrigliato e domato la sinistra massimalista e aveva convinto il grande elettorato di poter essere un’alternativa a Trump. Aveva trovato la quadratura tra la fazione ribelle dei democratici che segue Alexandra Ocasio-Cortez (ma loro non si definiscono i ribelli, si considerano l’avanguardia più rappresentativa del futuro del partito) e il grande centro che non vuole troppe sorprese, altrimenti si scoraggia e non va a votare e poi lascia la leadership dell’America in mano agli altri. I sondaggi hanno premiato questa posizione, il distacco ha cominciato a farsi pesante. A un certo punto della campagna elettorale Biden si teneva basso e lasciava fare il grosso del lavoro a Trump, che giorno dopo giorno se ne usciva con dichiarazioni bizzarre e dannose. Il focus della sfida fra i due candidati restava sulla gestione della crisi da Covid-19 e sull’economia. Se fosse rimasto lì, è possibile che il distacco sarebbe ancora cresciuto (sì, Trump porta una grande responsabilità per la gestione della crisi Covid-19, perché tra le altre cose ha minimizzato fino all’ultimo e ha politicizzato la guerra al virus. A tal punto ha politicizzato la situazione che per molti mesi indossare una mascherina è stato scambiato per un simbolo di appartenenza al Partito democratico invece che essere una normale misura anti epidemia). Invece ora l’attenzione si è spostata sulle tensioni e i disordini nelle strade e qui Trump gioca un doppio ruolo che lo avvantaggia. Da una parte è responsabile della situazione, perché da anni usa una retorica divisiva che incoraggia lo scontro come non si era mai visto in precedenza. Invece che calmare gli americani, Trump eccita i suoi: “Dopo 95 giorni di violenza a Portland non ci si poteva non aspettare una grande reazione”, ha scritto su Twitter rilanciando il video di un corteo di suoi sostenitori che attraversavano le vie della città sui loro pick-up e sparavano paintball contro le persone sui marciapiedi. Dall’altra parte è il candidato che viene considerato come il più deciso quando si tratta di ordine pubblico e di sostegno alla polizia. “Law & Order”, ha scritto di nuovo ieri su Twitter e si capisce che è lo slogan non ufficiale della campagna, molto più ficcante di quello del suo vice, Mike Pence: “Make America Great Again… Again”.

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Biden fa dichiarazioni dure contro i saccheggi e le violenze, ma nel quadro generale finiscono per farsi sentire meno di quelle di Trump. “Tutti quelli che saccheggiano e incendiano dovrebbero essere arrestati. Sono un problema per la società e trasformano in una farsa le ragioni della protesta. Dovrebbero essere processati e messi in prigione”, ha detto. Ma in tempo di campagna elettorale si lavora e si pensa per percezioni grossolane, per istinti, per sillogismi falsi: se Biden sta con il BLM e quelli che bruciano negozi stanno con il BLM allora vuol dire che Biden sta con quelli che bruciano i negozi. E tanto per complicare le cose una settimana fa è uscito un saggio di Vicky Osterweil, una di quella sinistra che sembra tagliata apposta per deliziare i commentatori trumpiani, che ha per titolo “In defense of looting”, in difesa del saccheggio, e teorizza che i saccheggi non sono belli da vedere ma ehi, in fin dei conti se non ci fossero la gente non si accorgerebbe nemmeno delle proteste. Siamo dalle parti della rivoluzione che non può essere un pranzo di gala, secondo Mao. Non sono citazioni che l’elettore medio vorrebbe sentire a due mesi dalle elezioni presidenziali. Di sicuro il comitato elettorale di Biden non le vuole ascoltare.

  

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Kellyanne Conway, la consigliera di Trump che ieri era al suo ultimo giorno di lavoro, domenica l’ha sintetizzato così in tv: “C’è questa cosa che ha detto un ristoratore del Wisconsin, ‘State cercando di far rieleggere Trump? Lui lo sa che più ci sono caos e anarchia e vandalismo e la violenza dilaga, meglio è perché c’è una risposta evidentissima su chi è il migliore quando si parla di sicurezza pubblica, legge e ordine”. Trump, che vede l’occasione di riprendere quota, oggi è in visita a Kenosha, e sarà un lungo tour fra le macerie e i veicoli bruciati. Il governatore democratico del Wisconsin, Tony Evers, ha dichiarato che il presidente non dovrebbe venire, ma l’occasione era troppo facile perché non fosse sfruttata. Trump imbocca la variante Kenosha nella speranza di passare in testa nella corsa elettorale.

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