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Che cosa fare se lavori con Trump e tua figlia adolescente ti odia

Simonetta Sciandivasci

A che punto è lo sfascio della famiglia Conway: lei consigliera del presidente americano, lui oppositore e una sedicenne in crisi

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Roma. Domenica scorsa, Kellyanne Conway, l’assistente più devota di Trump, ha ufficializzato le sue dimissioni spiegando che vuole trascorrere più tempo con la sua famiglia, specie con i suoi amati figli, ai quali sente di dover assicurare “meno dramma, più mamma” – Less drama more mama è anche il titolo di un podcast sulla maternità responsabile e avvertita, che negli Stati Uniti ha un discreto successo.

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Roma. Domenica scorsa, Kellyanne Conway, l’assistente più devota di Trump, ha ufficializzato le sue dimissioni spiegando che vuole trascorrere più tempo con la sua famiglia, specie con i suoi amati figli, ai quali sente di dover assicurare “meno dramma, più mamma” – Less drama more mama è anche il titolo di un podcast sulla maternità responsabile e avvertita, che negli Stati Uniti ha un discreto successo.

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Nelle ultime settimane, sua figlia Claudia ha scritto tweet contro Trump e contro di lei, ha detto che è una madre tossica, che il suo lavoro le ha rovinato la vita, che il fatto che avesse parlato alla Convention repubblicana la devastava e che voleva assolutamente emanciparsi. È stata subissata di cuoricini, supporto, domande, e così ha specificato di aver voluto dar sfogo al suo disagio e alla sua vulnerabilità, e di averlo fatto non solo per sé, ma pure per gli altri, affinché sapessero che sua madre agisce solo e soltanto per soldi e fama. Ha tirato in mezzo anche suo padre, con il quale non condivide niente, se non il buon senso di capire che Trump è il male del paese. George T. Conway, papà della ragazza e marito di Kellyanne, è un repubblicano dissidente, detesta Trump ed è tra i fondatori del Lincoln Project, un comitato molto attivo sui social network, nato sul finire dello scorso anno per impedire la rielezione dell’aborrito The Donald. Richiama ogni giorno gli elettori alla responsabilità personale, al dovere di un voto coscienzioso e non di protesta, offre un’approfondita rassegna stampa politica, ogni tanto satireggia.

   

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La povera Kellyanne, quindi, convive da mesi con due dissidenti che ogni giorno e con crescente acredine sacramentano pubblicamente contro il suo capo, il presidente degli Stati Uniti, mentre lei lavora a una delle campagne elettorali più complesse della storia americana recente. Fuori casa combatte la guerra, dentro casa si difende dall’assedio. Mai una tregua. Domenica anche suo marito s’è dimesso: non dal suo lavoro ma da Twitter, e non troppe ore dopo lo ha fatto anche Claudia. Dopo averci offerto un sanguigno ibrido tra American Beauty, House of Card e Pastorale Americana, uno squarcio su una storia familiare e politica che meriterebbe d’esser sceneggiata da Franzen, Sedaris, Atwood e Paula Fox, i Conway battono la ritirata, dicono che hanno bisogno di pensare, star soli, parlarsi, ristrutturare la loro salute psichica. I due dissidenti, specie Claudia, lo hanno detto con tono infiacchito e drammatico, mentre lei, che avrebbe il cuore a forma di Jane Fonda se non fosse che Jane Fonda è una democratica, ha sorriso, ferma e serafica, ha cercato di venderci la favola della madre che si guarda indietro a capisce che il suo lavoro l’ha resa cieca, distante, forse persino incurante, e che adesso però è arrivato il momento di recuperare, perché arriva sempre il momento nella vita di una donna in cui si deve scegliere tra famiglia e carriera. Ma è una narrazione fuori asse, stonata, mal recitata. A settembre dell’anno scorso, Margot Wallstrom, ministro degli Esteri svedese e promettente delfina di Olof Palme, punto di riferimento della socialdemocrazia nordeuropea, annunciò le sue dimissioni in modo simile, scrisse che era giunto per lei il tempo di dedicarsi a consorte, figli, nipoti. In verità, era stufa di non riuscire a tirarsi fuori dalla subalternità nella quale il suo partito l’aveva relegata. Il caso di Kellyanne è più complesso, ma condivide forse con quello svedese l’omissione della ribellione, il suo camuffamento.

  

L’europea si ritrae perché la politica la sbrana e svaluta, l’americana lo fa perché la famiglia la sbrana e svaluta. Non è però alla sua famiglia che Kellyanne è fedele e sua figlia, in fondo, ha ragione: è a Trump che la sua mossa potrebbe giovare. Sua figlia insulta il suo presidente, è chiaro che non la smetterà finché lei sarà al suo fianco, e allora lei le spezza il giochino, va via, la priva della possibilità di dire al mondo che lei soffre come un cane perché sua madre sostiene il demonio. Le spezza il giochino e lo fa dicendo, tra le righe, che la sua bambina non sta bene, e che questo fa scomparire qualsiasi onere, e da brava mamma repubblicana sa quando fare un passo indietro, sa a cosa una donna deve dare priorità assoluta. In questo modo all’elettorato americano dimostra che, nel suo entourage, Trump ha persone d’alto calibro, ferrea tenuta etica, robusto senso della famiglia – tutte cose che a noi pagani mediterranei fanno forse ridere, ma che laggiù hanno un peso che sarebbe azzardato ritenere dissolto dal #metoo e dalle moltissime altre diramazioni delle spinte femministe. Ma magari i conservatori puri, e anche quelli impuri, della barbarie trumpiana sono così stufi che non si faranno incantare, non ci penseranno nemmeno per un momento, non sospireranno neanche uno wow, per questa signora così perbene, leale e fedele, che in un colpo solo è riuscita a fare del bene alla sua famiglia e al nemico della sua famiglia, a totale detrimento della sua carriera. Forse.

   

Di contro c’è che Trump è uno sfasciafamiglie. Più cerca la mano di sua moglie e più lei si ritrae, più lui insiste e più lei ribolle, non si sposta neanche i capelli dalla faccia, e quando lui le dice di sorridere ai fotografi, lei non si toglie gli occhiali e quasi ringhia. Sua figlia Ivanka a volte gli dà del filo da torcere (finge) perché sa che farlo la qualifica, la smacchia, e altre volte rincorre la sua approvazione (finge ancora), perché sa che se oggi questo le vale una condanna, domani le varrà un condono, farà dire a molti che lei si è emancipata da un padre terribile, condizionante, dittatoriale e greve.

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Poco meno di due anni fa, il New York Magazine pubblicava un’analisi sugli effetti che, dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, la politica americana stava avendo sulle relazioni d’amore. S’intitolava “Donad Trump sta distruggendo il mio matrimonio” e raccontava le storie di molte coppie, quasi tutte democratiche e ostili al presidente, che non riuscivano più ad andare d’accordo perché quello che succedeva alla Casa Bianca li turbava, li innervosiva, li divideva e, soprattutto, li ossessionava.

  

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“Non possiamo parlare dei Trump prima di andare a dormire e svegliarci la mattina dopo con te che ancora vuoi vomitare fiele”, diceva John a Samantha, 25 anni insieme e mai uno sgarbo, fino all’inverno del 2016, quando avevano preso a darsele di santa ragione per ogni tweet, azione, idea, discorso presidenziale, tanto da rivolgersi a un avvocato. L’anno prima, Reuters aveva rilevato che nei mesi successivi alla vittoria di Trump, il 13 per cento dei sondati aveva rinunciato a una relazione per divergenze politiche e per il 23 per cento di loro la vita sentimentale era diventata parecchio più difficoltosa. Un divorzista newyorkese, Lois Brenner diceva al giornale: “Superato lo shock, le persone hanno cominciato a litigare con i propri partner”.

  

A casa Conway quei litigi sono diventati un fatto politico, si sono infilati nella Casa Bianca e le hanno portato via qualcosa, anche se è stato detto il contrario, ma è una bugia. Coniugale, come quasi tutte le bugie che cambiano la storia.

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