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Come si batte il virus

Giulia Pompili

Il “modello sudcoreano” spiegato da chi l’ha inventato. Così Seul è riuscita a contenere i nuovi focolai

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Roma. La Corea del sud è stato uno dei primi paesi in cui la parola “Covid”, a un certo punto, è scomparsa dalle prime pagine dei giornali. A differenza di diversi paesi in cui il virus sembrava sconfitto, e poi invece nuovi contagi, nuovi lockdown, il governo di Seul non ha mai dichiarato vinta la battaglia con la pandemia, ma nel frattempo la vita è tornata alla normalità. Ieri i nuovi casi di Covid-19 in Corea del sud erano 34: di questi, 11 d’importazione e 23 contagi comunitari. Con una popolazione totale di 52 milioni di persone, il paese complessivamente ha registrato a oggi 14.660 persone infette da coronavirus (l’Italia, con 60 milioni di abitanti, ne ha avute 251 mila). Si è parlato moltissimo in questi mesi di “modello sudcoreano”, un modello che oggi Seul sta cercando di promuovere per accreditarsi all’estero come potenza regionale responsabile. Ma anche perché, come dimostrano gli altri paesi dell’area del Pacifico come Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Vietnam, eliminare del tutto il virus è impossibile, trovare un sistema per una pacifica convivenza con il virus invece sì. “Prevediamo che la pandemia avrà dei tempi ancora molto lunghi: quello che posso dire a oggi è che finora la Corea è riuscita a contenerla con successo”, dice al Foglio in una lunga intervista via Skype il dottor Son Young-rae, senior epidemiological strategist del Central Disaster Management del governo di Seul – la Protezione civile sudcoreana – e portavoce del ministero della Salute.

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Roma. La Corea del sud è stato uno dei primi paesi in cui la parola “Covid”, a un certo punto, è scomparsa dalle prime pagine dei giornali. A differenza di diversi paesi in cui il virus sembrava sconfitto, e poi invece nuovi contagi, nuovi lockdown, il governo di Seul non ha mai dichiarato vinta la battaglia con la pandemia, ma nel frattempo la vita è tornata alla normalità. Ieri i nuovi casi di Covid-19 in Corea del sud erano 34: di questi, 11 d’importazione e 23 contagi comunitari. Con una popolazione totale di 52 milioni di persone, il paese complessivamente ha registrato a oggi 14.660 persone infette da coronavirus (l’Italia, con 60 milioni di abitanti, ne ha avute 251 mila). Si è parlato moltissimo in questi mesi di “modello sudcoreano”, un modello che oggi Seul sta cercando di promuovere per accreditarsi all’estero come potenza regionale responsabile. Ma anche perché, come dimostrano gli altri paesi dell’area del Pacifico come Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Vietnam, eliminare del tutto il virus è impossibile, trovare un sistema per una pacifica convivenza con il virus invece sì. “Prevediamo che la pandemia avrà dei tempi ancora molto lunghi: quello che posso dire a oggi è che finora la Corea è riuscita a contenerla con successo”, dice al Foglio in una lunga intervista via Skype il dottor Son Young-rae, senior epidemiological strategist del Central Disaster Management del governo di Seul – la Protezione civile sudcoreana – e portavoce del ministero della Salute.

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“E’ difficile spiegare brevemente quale sia il segreto del sistema coreano anti-Covid. Però posso elencare due elementi essenziali: il primo è la collaborazione tra i cittadini, il sistema sanitario e il governo. Ognuno ha svolto il proprio ruolo ma tutti sono riusciti a collaborare. I sudcoreani, nella loro vita quotidiana, hanno applicato tutte le regole per evitare la diffusione del virus. Hanno indossato sempre la mascherina, applicato il distanziamento sociale, hanno cercato di evitare assembramenti nei posti chiusi. A livello governativo siamo riusciti a coordinarci con successo tra i vari ministeri e gli uffici della Protezione civile, un sistema che ha portato a un efficiente contact tracing e fare un numero sufficiente di tamponi per isolare i contagiati. Inoltre la Corea parte da un sistema sanitario di eccellenza”. Questa sinergia, secondo il dottor Son, ha portato i sudcoreani ad affrontare l’emergenza preparati, anche grazie “a una serie di strategie creative e flessibili, applicate a un’epidemia che non conoscevamo per niente. Potrei fare vari esempi: i tamponi drive-through o per strada, l’utilizzo delle app per risalire ai contatti dei contagiati, usando anche tecnologia innovativa”. Nel mese di febbraio per avere tutti i contatti di un contagiato la app ci metteva due o tre giorni. Adesso ci vogliono soltanto poche ore: “L’efficienza del contact tracing è in continuo sviluppo, continuiamo ad aggiornare le tecnologie in base a quello che impariamo. Un’altra iniziativa fondamentale è stata quella di curare i pazienti con sintomi lievi in strutture alberghiere o simili. In questo modo non abbiamo occupato posti in ospedale, e ora quelle stesse strutture sono usate per far fare la quarantena alle persone che rientrano in Corea dall’estero”. Il portavoce spiega che sono tutti metodi mai applicati per una epidemia, pensati e messi in pratica nel giro di pochi giorni dopo il primo focolaio nella città di Daegu. Di nuovo: creatività e flessibilità. Eppure in molti paesi, dove il coronavirus sembrava ormai sconfitto, ogni tanto si riaccendono focolai pericolosi: “A partire da maggio la Corea è tornata nella quotidianità sia nella vita sociale sia economica, abbiamo applicato un modello di convivenza con il virus. Ovviamente ci sono stati dei nuovi piccoli focolai. Attualmente i nuovi contagi giornalieri si attengono tra i 20 e 40 al giorno e solo il 10 per cento dei nuovi contagi sono inizialmente di origine sconosciuta”, dice il dottor Son. A quel punto cambiano un po’ le regole: “Quando si registra un nuovo focolaio il governo cerca di incentivare regole più stringenti. Abbiamo notato che il virus si diffondeva più facilmente nelle chiese, nei club, nei luoghi di svago, e abbiamo chiesto ai cittadini di usare molta più cautela in certe circostanze, limitando il numero di persone a cui è permesso l’accesso, per esempio, e devo dire che sia i gestori sia i cittadini si sono dimostrati collaborativi. Certo, facciamo anche molti controlli. E scusi se insisto sulla collaborazione dei cittadini ma è davvero l’unico modo per rallentare i contagi: tra febbraio e aprile un nuovo focolaio riusciva a infettare dalle 100 alle 200 persone, mentre da maggio in poi un focolaio di media contagia 30-40 persone, e tutto grazie a queste nuove linee guida. Per continuare a contenere il virus il secondo elemento importante è effettuare in tempi rapidi l’indagine epidemiologica che ci permette di fare molti tamponi ai casi sospetti e di isolarli tempestivamente. Con questo metodo in tempi brevi riusciamo a contenere i nuovi focolai. Da maggio a oggi ce ne sono stati circa un centinaio, e siamo riusciti a contenerli tutti”.

 

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Sul contact tracing e sui metodi di controllo delle persone, però, anche in Corea c’è stato un dibattito che riguarda la privacy dei cittadini: “E’ un tema molto importante questo”, dice Son. “La Corea ha delle basi legislative che ci permettono di effettuare dei controlli, e ci muoviamo sempre all’interno di questo perimetro. Chi utilizza i dati e le informazioni in violazione della legge viene punito. Poi cerchiamo di proteggere i dati personali il più possibile, grazie anche alla tecnologia. Per esempio, quando si entra in discoteca si deve registrare il qr code. Il codice manda le informazioni in due server diversi: in uno si raccolgono i dati personali e nell’altro i dati del luogo. Sono informazioni utili solo se messe insieme, ma si deve avere la tecnologia per metterle insieme. Anche se dovessero essere hackerati i server quei dati non sono utilizzabili da soli. Proteggiamo la privacy dei cittadini con tecnologia avanzata. Inoltre possiamo dire che dall’inizio della pandemia a oggi non c’è mai stato un caso dove stati diffusi dati personali per scopi non sanitari, anche questo ci ha dato modo di ottenere la fiducia dei cittadini”.

 

Nel 2015 l’epidemia di Mers in Corea del sud ha fatto 186 contagiati e 36 morti, ma fu uno choc per la società: “Di sicuro l’esperienza della Mers, ma non solo, anche l’epidemia di nuova influenza e della Sars, ci ha aiutati”, spiega il dottor Son. “Il sistema di contact tracing e dei tamponi sono stati pensati proprio in quel periodo. Ma un altro insegnamento prezioso della Mers riguarda l’importanza della trasparenza. All’epoca non avevamo reso pubbliche alcune informazioni, e i cittadini avevano perso la fiducia nel governo. Ci ha fatto capire quant’è importante la trasparenza in situazioni come queste”. Sin da febbraio il governo sudcoreano, per due volte al giorno, fa un briefing con i giornalisti per dare aggiornamenti sul coronavirus, “e diamo tutte le informazioni possibili. Penso che questo aiuti i cittadini a non avere una paura eccessiva e né a sottovalutare il problema conoscono i dettagli e i pericoli che devono affrontare ma sono sicuri”. C’è poi un altro fatto, che riguarda le istituzioni internazionali: “Durante la Mers abbiamo applicato rigorosamente i criteri dell’Organizzazione mondiale della sanità e questo non ci ha aiutato per niente a contenere il virus, anzi, ci ha messi in difficoltà. Faccio un esempio: all’epoca l’Oms diceva che le persone a rischio erano quelle che avevano trascorso più di 30 minuti con una persona infetta, ma la nostra esperienza ci diceva che le persone a rischio erano molte di più, e questo ci ha aiutato a non essere troppo rigidi nelle informazioni che avevamo assimilato dal passato e ad agire con flessibilità”. Un altro problema enorme è quello dei confini, perché chiuderli significa isolare un paese, ma aprirli del tutto vuol dire esporsi al virus, ancora: “E’ un punto su cui sta riflettendo molto il governo. La Corea ritiene che sia importante non chiudere mai le frontiere, non lo abbiamo mai fatto. Però siccome aumenta il rischio deve aumentare anche la nostra capacità di controllo. Dal primo aprile per chiunque arrivi in Corea si applica un periodi di quarantena di 14 giorni e anche un test Covid. Ci sono alcune eccezioni, che riguardano il settore economico, accademico e umanitario, e in certi casi si può ottenere l’esenzione dalla quarantena. Ma con questi controlli abbiamo isolato 1.400 contagiati che stavano rientrando in Corea e non hanno infettato nessuno localmente”, conclude l’epidemiologo. Per mettere in piedi un sistema così complesso ed efficace però il governo avrà assunto delle persone, mobilitato chiunque: “E’ difficile dire esattamente quante persone sono state coinvolte, ma in generale il numero di dipendenti in Corea non è proprio così elevato. C’è il Centro per il controllo delle malattie che comunica con i governi locali e circa trecento istituzioni sanitarie locali. Ovviamente è molto difficile affrontare una pandemia come questa con a disposizione solo queste persone, quindi per aver maggiore personale abbiamo chiesto la collaborazione del personale di altri enti pubblici. La polizia, i vigili del fuoco, anche i militari (in Corea del sud c’è il servizio di leva obbligatorio per gli uomini, ndr): tutti stanno collaborando per applicare le misure anti Covid. Sono stati mobilitati anche gli impiegati dei ministeri non direttamente coinvolti, da quello dell’istruzione a quello dei trasporti. Se a livello di sistema sanitario le persone che si occupano del contenimento del virus sono circa mille, coinvolgendo tutti gli altri civil servant arriviamo a decine di migliaia”.

 

Ecco, a proposito di civil servant. In Italia si discute molto, come nel resto del mondo, sulla riapertura delle scuole. Come è andata in Corea del sud? C’è stato dibattito sulle rotelle dei banchi? “Quello della riapertura delle scuole è stato un tema molto discusso anche in Corea. Il governo ha avuto un atteggiamento protettivo in questo caso, stiamo riaprendo le scuole in modo molto graduale. Quando ad aprile abbiamo deciso di applicare un nuovo sistema di contenimento che permetteva di tornare alla vita quotidiana, abbiamo deciso di riaprire anche le scuole. Ma abbiamo iniziato con una riapertura graduale: le lezioni a distanza sono rimaste il metodo centrale dell’educazione, però man mano un terzo della scuola a rotazione ha iniziato ad andare a seguire le lezioni dal vivo. In questi casi, gli studenti avevano l’obbligo di indossare la mascherina, e abbiamo creato ambienti che permettessero il distanziamento in classe, al bagno, a mensa. Dopo un mese di sperimentazione delle lezioni a rotazione abbiamo aumentato il numero di studenti a due terzi, e in caso di focolai sarebbe stato ridotto ancora. Andiamo avanti gradualmente: questo è il quarto mese che gli studenti sono tornati e finora non c’è mai stato un focolaio partito dalle scuole, quindi posso dire che il sistema ha avuto successo”. In Europa periodicamente si diffondono voci su una possibile mutazione del virus, o di un abbassamento del livello di viralità. Voi che informazioni avete? “Non credo che ci sia stata una mutazione. Noi continuiamo a testare geneticamente il virus: all’inizio circolavano molto i ceppi V e S, ora invece sembra che siano più frequenti i ceppi GH e GR. Non abbiamo informazioni definitive, ma i gruppi GH e GR del virus sembrano più aggressivi rispetto a quelli che si sono manifestati all’inizio. Al contempo, però, sono in diminuzione i casi di decessi per il Covid: all’inizio in Corea la mortalità era del 2,08 per cento e ora è in costante diminuzione. E penso che i motivi siano due: il primo è che in generale le persone si contagiano meno, quindi quelle con sintomi importanti sono di meno e ci si può dedicare più attenzione a loro, quindi ci sono meno decessi. Dall’altra parte c’è uno sviluppo nella cura della malattia, in ospedale ci sono nuovi protocolli e anche il personale ospedaliero sta iniziando a specializzarsi. Questo ce lo dimostrano i dati effettivi: da febbraio a marzo la mortalità era al 2.46 per cento, mentre da aprile a maggio è calato fino allo 0,98 per cento”, conclude il portavoce del ministero della Salute di Seul.

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