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Tutti amici e pronti ad aiutarsi in Europa, basta che non si tratti degli inglesi

Micol Flammini

Secondo la tabella della solidarietà Ue pubblicata da YouGov, in caso di crisi solo 4 nazioni sarebbero disposte ad aiutare il Regno Unito (c’entra la Brexit)

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Roma. Brexit means Brexit, ce lo hanno ripetuto così tante volte i falchi del divorzio europeo che alla fine ci siamo convinti tutti: Brexit vuol dire Brexit e la vittoria del leave sul remain, quando nel 2016 con il referendum si è trasformata in realtà, ha fatto subito molta paura ai sostenitori del progetto europeo. L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sembrava dovesse significare la fine dell’Ue stessa e l’inizio di un terremoto interminabile fatto di una exit dietro l’altra. E invece no, l’Ue ha retto e, come scrive il commentatore del Financial Times Gideon Rachman, da questa separazione ne è uscita un’Unione più forte, più collaborativa e anche più ambiziosa. I negoziati per il Recovery fund non sono stati semplici, i quattro frugali, con i Paesi Bassi in testa, hanno puntato i piedi a lungo, ma alla fine è stato raggiunto un accordo importante che con i britannici a Bruxelles sarebbe stato molto più difficile da siglare. Forse impossibile. O forse Angela Merkel e Emmanuel Macron non avrebbero nemmeno provato a rilanciare il progetto europeo con tanto coraggio durante la pandemia. La Brexit ha fatto bene all’Unione europea, ha aperto una nuova stagione fatta di cooperazione e solidarietà. Chi aveva scommesso sull’uscita del Regno Unito dall’Ue per indebolire l’Unione, ha perso la scommessa, anche “il presidente russo aveva torto”, scrive Rachman. 

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Roma. Brexit means Brexit, ce lo hanno ripetuto così tante volte i falchi del divorzio europeo che alla fine ci siamo convinti tutti: Brexit vuol dire Brexit e la vittoria del leave sul remain, quando nel 2016 con il referendum si è trasformata in realtà, ha fatto subito molta paura ai sostenitori del progetto europeo. L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sembrava dovesse significare la fine dell’Ue stessa e l’inizio di un terremoto interminabile fatto di una exit dietro l’altra. E invece no, l’Ue ha retto e, come scrive il commentatore del Financial Times Gideon Rachman, da questa separazione ne è uscita un’Unione più forte, più collaborativa e anche più ambiziosa. I negoziati per il Recovery fund non sono stati semplici, i quattro frugali, con i Paesi Bassi in testa, hanno puntato i piedi a lungo, ma alla fine è stato raggiunto un accordo importante che con i britannici a Bruxelles sarebbe stato molto più difficile da siglare. Forse impossibile. O forse Angela Merkel e Emmanuel Macron non avrebbero nemmeno provato a rilanciare il progetto europeo con tanto coraggio durante la pandemia. La Brexit ha fatto bene all’Unione europea, ha aperto una nuova stagione fatta di cooperazione e solidarietà. Chi aveva scommesso sull’uscita del Regno Unito dall’Ue per indebolire l’Unione, ha perso la scommessa, anche “il presidente russo aveva torto”, scrive Rachman. 

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Questa settimana l’istituto demoscopico britannico YouGov ha pubblicato i risultati di una serie di sondaggi condotti su 21mila persone in 14 paesi europei, tutti paesi membri a eccezione del Regno Unione. Dalle domande rivolte agli intervistati è venuto fuori che la maggior parte degli europei crede che il compito dell’Ue sia quello di proteggere i suoi cittadini e la loro “way of life”, lo stile di vita europeo che ha dato il nome al portafoglio del commissario Margaritis Schinas. Agli intervistati è stato anche chiesto quanto conta la solidarietà in Ue e, per tanti, conta molto. La maggior parte dei paesi ha detto di essere pronta ad aiutare gli altri soprattutto in caso di: disastro naturale, epidemia o crisi di salute pubblica, attacco militare o problemi legati al cambiamento climatico. Tutti sono meno disposti ad aiutare se la crisi riguarda i rifugiati, la disoccupazione o la crisi di debito. I sondaggisti, oltre a chiedere in quale campo i paesi sarebbero stati più disposti a mostrare la loro solidarietà, hanno anche chiesto chi avrebbero preferito aiutare durante una crisi ipotetica e la risposta, riassunta in una tabella, bene racconta cosa la Brexit abbia significato per gli europei e cosa per i britannici. 

 

 

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Gli elementi da notare in questa tabella della solidarietà sono due. Il primo è che gli europei sono tutti, con le varie sfumature, disposti a darsi una mano in caso di crisi: gli italiani fanno un po’ gli schizzinosi con i tedeschi e i finlandesi con gli italiani, ma il bilancio tra paesi membri è positivo. La stessa disponibilità, però, non c’è nei confronti del Regno Unito: in caso di crisi soltanto quattro nazioni sarebbero disposte ad aiutarlo (Polonia, Danimarca, Romania e Svezia). Scrive Matthew Smith, a capo dello studio di YouGov, che questo non ha soltanto a che vedere con il fatto che i britannici siano percepiti come un popolo più ricco rispetto ad altri e quindi meno bisognoso di aiuti – altrimenti si riscontrerebbe un atteggiamento simile anche nei confronti di tedeschi e francesi – indica più che altro che gli europei si aiutano più volentieri tra di loro. Tra membri della stessa unione, di cui Londra non fa più parte. Questo divorzio tanto voluto dai britannici e temuto da Bruxelles, alla fine sembra aver dato all’Unione europea una nuova spinta. Il Regno Unito rimane in disparte, isolato. Per uscire da questa situazione, scrive Rachman, può fare soltanto una cosa: cercare con Bruxelles la stessa “relazione speciale” che ha coltivato con Washington. Soltanto così potrà prendere parte alla rinascita di una nuova alleanza occidentale.

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