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Se l’Asia si (ri)ferma

I focolai aumentano in Oriente. Le conseguenze economiche

Giulia Pompili

I contagi da Covid stanno salendo di nuovo in quasi tutta l’Asia e l’economia orientale comincia ad affrontare le conseguenze tangibili di una crisi sistemica e incontrollabile

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Roma. I contagi da Covid stanno salendo di nuovo in quasi tutta l’Asia e l’economia orientale, interconnessa più che mai, comincia ad affrontare le conseguenze tangibili di una crisi sistemica e incontrollabile. Ieri in Cina le infezioni da nuovo coronavirus sono state 61, di cui 57 sono domestiche. E’ il numero più alto dalle 75 di quattro mesi fa. Più di quaranta contagi sono stati rilevati nello Xinjiang, la provincia autonoma a maggioranza uigura che oggi è considerata la più a rischio. Anche il Vietnam, fino a poco tempo fa considerato uno dei pochi paesi sicuri in grado di contenere l’epidemia, sabato scorso è stato costretto a rialzare l’allerta dopo una infezione domestica registrata nella città turistica di Danang. Ottantamila persone sono state evacuate dalla quinta città più popolosa del paese, e il primo ministro Nguyen Xuan Phuc ha ordinato il lockdown. Anche se la situazione dei contagi dovesse restare circoscritta, l’economia del Vietnam, in forte crescita negli ultimi anni, è molto dipendente dal commercio e dal turismo, e secondo gli analisti subirà le conseguenze del rallentamento globale. Nel fine settimana anche Hong Kong ha raggiunto un nuovo record di contagi, e ieri le nuove infezioni erano più di cento. Sono stati chiusi i ristoranti, le piscine e le palestre, e indossare la mascherina nei luoghi pubblici è di nuovo obbligatorio. Secondo un’indagine di Reuters, l’economia della Cina quest’anno potrebbe crescere del 2,2 per cento, grazie agli stimoli del governo per contenere i danni dell’epidemia, ma fare previsioni è ancora troppo azzardato: i focolai continuano ad accendersi, e forse, ora che abbiamo più notizie sul coronavirus, riusciamo a controllarli meglio, ma non siamo ancora in grado di fermarli. Il problema fondamentale, a livello economico, soprattutto per una regione come quella asiatica, è lo spostamento di persone e merci. I confini chiusi sono una catastrofe.

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Roma. I contagi da Covid stanno salendo di nuovo in quasi tutta l’Asia e l’economia orientale, interconnessa più che mai, comincia ad affrontare le conseguenze tangibili di una crisi sistemica e incontrollabile. Ieri in Cina le infezioni da nuovo coronavirus sono state 61, di cui 57 sono domestiche. E’ il numero più alto dalle 75 di quattro mesi fa. Più di quaranta contagi sono stati rilevati nello Xinjiang, la provincia autonoma a maggioranza uigura che oggi è considerata la più a rischio. Anche il Vietnam, fino a poco tempo fa considerato uno dei pochi paesi sicuri in grado di contenere l’epidemia, sabato scorso è stato costretto a rialzare l’allerta dopo una infezione domestica registrata nella città turistica di Danang. Ottantamila persone sono state evacuate dalla quinta città più popolosa del paese, e il primo ministro Nguyen Xuan Phuc ha ordinato il lockdown. Anche se la situazione dei contagi dovesse restare circoscritta, l’economia del Vietnam, in forte crescita negli ultimi anni, è molto dipendente dal commercio e dal turismo, e secondo gli analisti subirà le conseguenze del rallentamento globale. Nel fine settimana anche Hong Kong ha raggiunto un nuovo record di contagi, e ieri le nuove infezioni erano più di cento. Sono stati chiusi i ristoranti, le piscine e le palestre, e indossare la mascherina nei luoghi pubblici è di nuovo obbligatorio. Secondo un’indagine di Reuters, l’economia della Cina quest’anno potrebbe crescere del 2,2 per cento, grazie agli stimoli del governo per contenere i danni dell’epidemia, ma fare previsioni è ancora troppo azzardato: i focolai continuano ad accendersi, e forse, ora che abbiamo più notizie sul coronavirus, riusciamo a controllarli meglio, ma non siamo ancora in grado di fermarli. Il problema fondamentale, a livello economico, soprattutto per una regione come quella asiatica, è lo spostamento di persone e merci. I confini chiusi sono una catastrofe.

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Da vent’anni la Corea del sud non sperimentava una crisi economica come questa. La quarta economia d’Asia è in recessione, e il colpo di grazia a un’economia già in rallentamento l’ha data la pandemia: ferme le fabbriche, crollo dell’export. Il pil sudcoreano è sceso del 2,9 per cento su base annua, il crollo peggiore dal 1998. Ma la Corea del sud considerata modello di gestione dell’epidemia non è da sola: anche Giappone, Singapore e Thailandia hanno annunciato la recessione tecnica. Il caso giapponese è particolare: dopo mesi in cui l’epidemia da Covid sembrava contenuta (trentamila contagiati complessivi e mille decessi), e con effetti minimi sull’organizzazione sociale, da metà giugno i focolai sono in aumento. Nella capitale Tokyo da una settimana i nuovi casi quotidiani sono oltre duecento (soltanto ieri sono scesi a 131) e la governatrice Yuriko Koike ha chiesto ai cittadini di evitare gli spostamenti. Il ministro dell’Economia Yasutoshi Nishimura, domenica scorsa, ha invitato le aziende a mantenere il tasso di telelavoro al settanta per cento. Per minimizzare gli effetti dell’assenza di turismo, il governo centrale ha tentato la via degli incentivi con un programma di rimborsi per chi vuole viaggiare all’interno del Giappone, ma l’iniziativa è stata molto contestata: non solo perché Tokyo all’ultimo momento è stata esclusa dalla lista dei luoghi visitabili, per via del numero dei contagi, ma anche perché incentivare il movimento delle persone potrebbe rendere ancora più complesso il controllo della diffusione del virus. A maggio il Giappone è entrato in recessione per la prima volta dal 2015, nei primi tre mesi del 2020 ha rallentato del 3,4 per cento su base annua. Lo stop all’export ma soprattutto il crollo dei consumi, dovuto alla pandemia e all’aumento dell’Iva dell’ottobre scorso, hanno accelerato il rallentamento.

  

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L’Australia ieri ha registrato il più alto numero di contagi dall’inizio dell’epidemia, quasi tutti legati ai nuovi focolai di Melbourne, nello stato di Victoria. Il lockdown di cinque milioni di persone, che ormai dura da tre settimane, fa sperare le autorità sanitarie che quello di questi giorni sia il picco di contagi. Ma di nuovo è la “seconda ondata” a fare peggio: fino a un mese fa l’Australia aveva avuto un totale complessivo di quindicimila casi, e ora ricomincia da capo. Giovedì scorso il ministro delle Finanze australiano Mathias Cormann ha detto che il deficit australiano potrebbe aumentare di molto fino a raggiungere i livelli del Dopoguerra. Le previsioni di crescita non sono rassicuranti: dopo trent’anni di dati positivi, l’economia australiana nel 2020 si contrarrà del 3,7 per cento.

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