PUBBLICITÁ

Il Papa e il sultano

Matteo Matzuzzi

L’intervento di Francesco su Santa Sofia è oro per la retorica di Erdogan, che per ora non fa la voce grossa

PUBBLICITÁ

Roma. La reazione di Ankara alle otto parole pronunciate a braccio domenica all’Angelus dal Papa è stata repentina, quasi che fossero attese. Francesco si è limitato a esprimere il proprio dolore per Santa Sofia, che da fine luglio tornerà a essere moschea aperta al culto. Per ora, il governo turco preferisce usare i toni bassi, confermando che poco o nulla cambierà e che il complesso voluto dall’imperatore Giustiniano resterà aperto a tutti, con i mosaici oscurati da speciali tendaggi solo durante la preghiera islamica. Pochi ci credono, a partire dai leader delle comunità ortodosse locali, che da mesi avevano lanciato l’allarme invocando una presa di posizione politica dell’occidente che è giunta, come spesso accade, tardi. Le promesse del governo turco sono accolte con scetticismo anche perché le scene trasmesse dai media statali venerdì poco dopo l’ufficializzazione della decisione unanime del Consiglio di stato non inducono a immaginare per Ayasofia un futuro quale centro pulsante del dialogo interreligioso. “Allahu akbar” era lo slogan scandito da una folla esultante ben felice di comparire sugli schermi delle televisioni nazionali. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Roma. La reazione di Ankara alle otto parole pronunciate a braccio domenica all’Angelus dal Papa è stata repentina, quasi che fossero attese. Francesco si è limitato a esprimere il proprio dolore per Santa Sofia, che da fine luglio tornerà a essere moschea aperta al culto. Per ora, il governo turco preferisce usare i toni bassi, confermando che poco o nulla cambierà e che il complesso voluto dall’imperatore Giustiniano resterà aperto a tutti, con i mosaici oscurati da speciali tendaggi solo durante la preghiera islamica. Pochi ci credono, a partire dai leader delle comunità ortodosse locali, che da mesi avevano lanciato l’allarme invocando una presa di posizione politica dell’occidente che è giunta, come spesso accade, tardi. Le promesse del governo turco sono accolte con scetticismo anche perché le scene trasmesse dai media statali venerdì poco dopo l’ufficializzazione della decisione unanime del Consiglio di stato non inducono a immaginare per Ayasofia un futuro quale centro pulsante del dialogo interreligioso. “Allahu akbar” era lo slogan scandito da una folla esultante ben felice di comparire sugli schermi delle televisioni nazionali. 

PUBBLICITÁ

 

 

PUBBLICITÁ

Ora che il Papa ha parlato, è immaginabile che le folle devote – a Dio e a Cesare – inizieranno a dirigere i propri strali verso il Pontefice di Roma, bersaglio eccellente quando si tratta di rinsaldare le file del nazionalismo islamico alla causa neo ottomana. Dopotutto, è dai tempi della malintesa lezione di Ratisbona che ogni dichiarazione papale non in linea con i desiderata erdoganiani è una buona occasione per rianimare la retorica dei turchi umiliati dai crociati con la complicità dei repubblicani laici cultori del mito di Atatürk. Nel 2015, quando Francesco parlò del genocidio armeno, Ankara schierò l’artiglieria pesante, incurante del bon ton diplomatico e delle conseguenze: richiamo dell’ambasciatore accreditato presso la Santa Sede, manifestazioni in tutta l’Anatolia. 

 

Il Papa – che solo un anno prima era entrato a Santa Sofia – fu definito “uomo che distorce la storia” e il capo del dipartimento per gli Affari religiosi, Mehmet Görmez, si impegnò a stilare comunicati in cui le parole del vescovo di Roma erano giudicate “immorali”. Ci volle molta diplomazia per ricomporre i cocci, compresa un’udienza riservata del presidente turco a Roma che però non andò come Erdogan avrebbe voluto: più che sulle politiche israeliane a Gerusalemme, infatti, il Papa si era mostrato interessato a discutere dei migranti ospitati in Anatolia e della libertà religiosa. Tema, questo, caro anche al Patriarca ecumenico Bartolomeo I, che ben conosce quanto la burocrazia di Ankara – questa sì davvero erede dell’Impero ottomano – sappia creare difficoltà all’esercizio del culto per le comunità cristiane. Erdogan, a intervalli più o meno regolari, ha bisogno di piantare bandiere, di ergersi a condottiero che onora lo spirito di conquista proprio dei vecchi sultani e, in epoca più recente, dello stesso Mustafa Kemal – quest’ultimo è pur sempre colui che impose forzatamente a un popolo più vicino all’oriente che all’Europa l’occidentalizzazione forzata, cambiando anche l’alfabeto. 

 

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

La Turchia è sempre alla ricerca di un Maometto II, un leader che alimenti la retorica della rivincita contro chi ha impedito – a Lepanto piuttosto che a Vienna – all’Impero di splendere ancora di più. E non v’è nulla di meglio del fattore religioso per coalizzare la propria base che negli ultimi anni ha mostrato più d’un segno di cedimento, complici le difficoltà economiche e gli ostacoli a realizzare il disegno neo ottomano messo nero su bianco dall’ex fidatissimo consigliere e poi ministro e premier Ahmet Davutoglu. Erdogan strumentalizza la religione per rafforzarsi ad Ankara e in questo progetto s’inserisce la ricerca di un nemico di peso verso cui sfogare la retorica di cui è capace. Se poi il nemico è il Papa di Roma, le possibilità di successo in patria aumentano ancora di più. I primi a pagare la “conquista” di Santa Sofia saranno gli ortodossi, e non è un caso che a fare la voce grossa, nelle scorse settimane, siano stati i patriarchi di Costantinopoli, Mosca e Atene. Dalla Grecia hanno annunciato contromisure durissime, ma si tratta di minacce che a Recep Tayyip Erdogan possono produrre al massimo qualche leggero fastidio. Troppe le armi a sua disposizione in grado di far valere le pretese nei confronti dell’occidente da cui si è progressivamente allontanato. Neanche il Papa, stavolta, pur animato dalle migliori intenzioni, riuscirà a invertire il corso della storia.

PUBBLICITÁ