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Perché bisogna preoccuparsi della battaglia truculenta sull’Himalaya

Eugenio Cau

Torna lo scontro di confine tra Cina e India. Parla un esperto

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Milano. Lo scontro tra soldati cinesi e indiani nella valle del fiume Galwan, due giorni fa, è stato un affare brutale. Lungo il confine conteso tra le due potenze nucleari, dove l’ultimo soldato era morto nel 1975, è una regola ferrea non usare armi da fuoco – sparare un colpo sarebbe un atto di guerra. Ma le truppe di stanza sull’Himalaya, a oltre 4.000 metri d’altitudine, hanno altri modi per misurare la loro forza. Così, quando lunedì sera sono cominciati gli scontri, i soldati si sono presi a pugni, a sassate, e hanno usato armi improvvisate come bastoni di legno con chiodi e filo spinato alle estremità. Secondo le ricostruzioni la battaglia è stata truculenta, alcuni soldati sono caduti da un pendio e finiti del fiume Galwan, che in questi giorni è in piena, e di loro si sono perse le tracce. Secondo le autorità di Delhi sono morti 20 soldati indiani e molti sono dispersi, forse prigionieri forse morti. Pechino non ha parlato esplicitamente di propri soldati morti, ma in un comunicato ufficiale ha detto che ci sono state “vittime”, implicando da entrambe le parti. I media indiani dicono che i soldati cinesi morti sono 43, ma ovviamente il numero non è confermato.

 

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Lo scontro di due giorni fa è la crisi più grave tra Cina e India da qualche decennio. Entrambe le parti hanno invitato alla calma, ma “se è vero che né Delhi né Pechino vogliono un conflitto, in questo clima internazionale di caos e incertezza non si può escludere un’escalation”, dice al Foglio Come Carpentier de Gourdon, scrittore e analista geostrategico di base in India. Il conflitto ha cominciato a sobbollire tra aprile e maggio, quando lungo i 3.488 chilometri di confine conteso si sono verificati scontri (sempre a pugni e sassate) in più luoghi. I cinesi sono preoccupati perché da qualche anno l’esercito indiano ha fortificato in maniera decisiva le sue posizioni con la costruzione di una serie di infrastrutture, tra cui la pista aerea più alta del mondo e una strada che corre parallela alle linee cinesi. A metà maggio, probabilmente in risposta a nuove costruzioni, l’esercito cinese ha occupato circa 60 chilometri quadrati di territorio fino a quel momento detenuto dall’India. Gli osservatori sono rimasti sorpresi, perché quello specifico territorio nella valle del fiume Galwan non era mai stato conteso. Ma il 25 maggio il Global Times, il tabloid dipendente dal Partito comunista cinese, ha sentenziato che la valle “è territorio cinese”. Si ipotizza che gli scontri di due giorni fa siano avvenuti durante un incontro per risolvere la questione dell’occupazione, ma ed è possibile che siano stati un’iniziativa estemporanea dei comandanti locali, che spesso “hanno molta autonomia”, spiega Carpentier. Ora sarebbe importante raffreddare il conflitto, anche perché anche in caso di guerra in quell’area “è ormai impossibile ottenere un vantaggio decisivo”, e insomma sarebbe una carneficina con scarsi risultati. Ma il nazionalismo tanto del presidente cinese Xi Jinping quanto del premier indiano Narendra Modi rende tutto più complicato.

  

Tra le due parti, tuttavia, la più aggressiva è la Cina. Nelle ultime settimane Pechino è stata attiva militarmente su tutti i fronti più rischiosi: ha intensificato le violazioni dello spazio aereo di Taiwan con i suoi jet da guerra, ha mandato la sua guardia costiera a inseguire i pescherecci giapponesi alle isole Senkaku/Diaoyu, contese al Giappone, ha aumentato la pressione militare nelle acque territoriali di Indonesia, Malaysia e Vietnam, e ha schiacciato le speranze democratiche di Hong Kong. “La Cina si sente minacciata dall’alleanza indo-pacifica che Washington sta cercando di costruire con Giappone, Australia e Vietnam, tra gli altri, e in cui vorrebbe si aggiungesse anche l’India”, spiega Carpentier. “Così approfitta di questo momento di disattenzione globale per creare dei facts on the ground”, che significa: cambiare più carte possibile sul tavolo da gioco mentre l’America guarda dall’altra parte.

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