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L'ultima fermata. Ecco il piano per Hong Kong

Giulia Pompili

La società sotto il controllo cinese, il business indipendente. I manifestanti hanno perso, l'autonomia è andata. Pechino non si fermerà davanti a niente

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Roma. Spray al peperoncino, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua sono tornati per le strade di Hong Kong. Le manifestazioni di domenica scorsa erano programmate e attese, dopo la proposta di legge sulla sicurezza nazionale annunciata da Pechino durante le Due sessioni, il più importante momento politico della Repubblica popolare. Centottanta arresti, diversi feriti, e sui social network le consuete immagini di violenza. Rispetto alle proteste dell’anno scorso, ha spiegato il fotoreporter Nicola Longobardi a Radio24, in strada c’erano molte meno persone, gruppi di manifestanti che si muovevano velocemente compiendo azioni di disturbo. Sono sempre meno, quelli che scendono in strada: forse per paura della Covid, ma più probabilmente per paura di quello che potrà succedere. Dal 9 giugno del 2019 ci sono state 1.600 persone sotto processo a Hong Kong, 8.300 arresti in relazione alle proteste. Pechino ha già vinto a tavolino, ed è questa la frustrazione maggiore degli attivisti. Per anni, senza che l’opinione pubblica internazionale potesse fare granché per ottenere dalla Cina il rispetto degli accordi internazionali, Pechino ha sistematicamente usato una lunga e paziente assertività per modificare lo status quo adattandolo ai suoi obiettivi. Lo ha fatto a Hong Kong, ma lo ha fatto anche nel Mar cinese meridionale, nei paesi che hanno dovuto cedere sovranità per ripagare debiti sulla Via della seta, nell’isolamento diplomatico di Taiwan.

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Roma. Spray al peperoncino, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua sono tornati per le strade di Hong Kong. Le manifestazioni di domenica scorsa erano programmate e attese, dopo la proposta di legge sulla sicurezza nazionale annunciata da Pechino durante le Due sessioni, il più importante momento politico della Repubblica popolare. Centottanta arresti, diversi feriti, e sui social network le consuete immagini di violenza. Rispetto alle proteste dell’anno scorso, ha spiegato il fotoreporter Nicola Longobardi a Radio24, in strada c’erano molte meno persone, gruppi di manifestanti che si muovevano velocemente compiendo azioni di disturbo. Sono sempre meno, quelli che scendono in strada: forse per paura della Covid, ma più probabilmente per paura di quello che potrà succedere. Dal 9 giugno del 2019 ci sono state 1.600 persone sotto processo a Hong Kong, 8.300 arresti in relazione alle proteste. Pechino ha già vinto a tavolino, ed è questa la frustrazione maggiore degli attivisti. Per anni, senza che l’opinione pubblica internazionale potesse fare granché per ottenere dalla Cina il rispetto degli accordi internazionali, Pechino ha sistematicamente usato una lunga e paziente assertività per modificare lo status quo adattandolo ai suoi obiettivi. Lo ha fatto a Hong Kong, ma lo ha fatto anche nel Mar cinese meridionale, nei paesi che hanno dovuto cedere sovranità per ripagare debiti sulla Via della seta, nell’isolamento diplomatico di Taiwan.

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Pechino ha una sua strategia, e credere che l’autonomia di Hong Kong potesse coincidere ancora con l’autonomia dal Partito comunista cinese era fin troppo ingenuo. Perché la Cina ha bisogno dell’economia di Hong Kong: la valuta della regione amministrativa speciale e la sua Borsa sono fondamentali per sostenere il capitalismo con caratteristiche cinesi della seconda economia del mondo. Nei piani di Pechino, Hong Kong deve inserirsi in modo omogeneo nella Greater Bay Area – l’area speciale di cui fanno parte anche Macao e la provincia del Guangdong, dove non a caso c’è la futuristica Silicon Valley cinese di Shenzhen. E pur di far partire a pieno regime questo motore dell’economia, da anni il principio di “un paese, due sistemi”, cioè l’accordo con il quale il Regno Unito ha riconsegnato il porto profumato a Pechino nel 1997 e che dovrebbe essere tutelato fino al 2047, è stato interpretato di volta in volta in modo che la società e il business venissero separati da una linea invalicabile. Dal punto di vista di Pechino le richieste di autonomia, di libertà e di democratizzazione sono un intralcio verso l’obiettivo. 

 

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E’ per questo che il voto distrettuale a Hong Kong conta sempre meno, che i parlamentari democratici del sistema legislativo locale vengono silenziati, arrestati, che la società civile che si espone viene censurata – solo ieri il giudice capo della Corte suprema di Hong Kong, Geoffrey Ma, ha dovuto ricordare ai giudici locali di evitare le sentenze che esplicitano motivazioni politiche, perché questo minerebbe la fiducia dei cittadini nei confronti del sistema giudiziario. I dettagli molto fumosi di questa legge sulla Sicurezza rendono impossibile ancora analizzarne le conseguenze, ma una cosa è certa: a subirla saranno soprattutto le persone, la libertà d’espressione, la trasparenza, il patto sociale che a Hong Kong si è rotto da un pezzo.

 

Ad aggravare la situazione c’è il clima internazionale, e il pericolo che la bandiera di Hong Kong possa essere usata per un negoziato tra Washington e Pechino. Le parole decisive le ha pronunciate Wang Yi, il ministro degli Esteri cinese, che domenica ha detto che l’America deve “abbandonare la sua speranza di cambiare la Cina”. In un discorso che verrà ricordato nei libri di storia, dopo anni in cui Pechino aveva sostanzialmente negato l’esistenza di una “nuova Guerra Fredda”, Wang ha detto: “Gli americani tengono in ostaggio le nostre relazioni diplomatiche portando i due paesi sull’orlo della Guerra fredda”. D’altra parte, la posizione anticinese alla Casa Bianca è sempre più esplicita, con Trump in piena campagna elettorale.

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