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Il passo decisivo di Pechino per far morire l’autonomia (e la libertà) di Hong Kong

Giulia Pompili

Parte l'iter per approvare la legge che dà più poteri al Partito comunista

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Roma. Hong Kong come la conosciamo non esiste più. L’ha scritto su Twitter Bill Bishop, uno dei più importanti osservatori delle questioni cinesi, commentando la notizia bomba che ha iniziato a circolare nel pomeriggio di giovedì. La Cina starebbe per iniziare l’iter di approvazione di una nuova legge sulla sicurezza nazionale che conferirebbe una maggiore autorità al Partito comunista su Hong Kong, erodendo sempre di più l’autonomia dell’ex colonia inglese. La decisione è stata annunciata a margine delle lianghui, la doppia sessione del Parlamento, dal portavoce dell’Assemblea nazionale del popolo Zhang Yesui. L’escalation è ormai iniziata: applicare la legge sulla sicurezza nazionale di Pechino nell’autonoma Hong Kong vuol dire “controllare attività sediziose e secessioniste” e di fatto eliminare la prassi del “un paese, due sistemi”, quella che da ventitré anni, dopo la riconsegna di Hong Kong da parte del Regno Unito alla Cina, avrebbe dovuto garantire l’autonomia dell’ex colonia inglese fino al 2047. Vuol dire poter arrestare chi protesta, oppure dissidenti politici, senza che i cittadini possano avere il conforto di uno stato di diritto, ma affidandosi del tutto al sistema cinese. Tecnicamente tutto ruota attorno al famigerato articolo 23 della Basic Law di Hong Kong, quello che dice che il governo locale di Hong Kong “promuove autonomamente le leggi per proibire qualsiasi atto di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il governo centrale”. L’implementazione di questo articolo fu tentata nel 2003 (c’era un’altra epidemia, la Sars) e provocò una delle più grandi manifestazioni di protesta che si siano mai tenute a Hong Kong. A quel punto, l’articolo 23 fu di nuovo rimesso nel cassetto. Ma la grande differenza è che allora era stato il governo locale a proporre l’implementazione della legge, oggi invece è direttamente Pechino a voler imporre la sicurezza nazionale della Cina continentale anche alla regione autonoma. Pechino ha fatto sapere di voler proteggere il territorio anche dalle “influenze esterne”, e il riferimento è chiaramente all’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, la legge approvata sei mesi fa dall’America e che impone al governo di imporre sanzioni contro la Cina in caso di violazione dei diritti umani nell’ex colonia inglese, e di vigilare sulla sua autonomia.

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Roma. Hong Kong come la conosciamo non esiste più. L’ha scritto su Twitter Bill Bishop, uno dei più importanti osservatori delle questioni cinesi, commentando la notizia bomba che ha iniziato a circolare nel pomeriggio di giovedì. La Cina starebbe per iniziare l’iter di approvazione di una nuova legge sulla sicurezza nazionale che conferirebbe una maggiore autorità al Partito comunista su Hong Kong, erodendo sempre di più l’autonomia dell’ex colonia inglese. La decisione è stata annunciata a margine delle lianghui, la doppia sessione del Parlamento, dal portavoce dell’Assemblea nazionale del popolo Zhang Yesui. L’escalation è ormai iniziata: applicare la legge sulla sicurezza nazionale di Pechino nell’autonoma Hong Kong vuol dire “controllare attività sediziose e secessioniste” e di fatto eliminare la prassi del “un paese, due sistemi”, quella che da ventitré anni, dopo la riconsegna di Hong Kong da parte del Regno Unito alla Cina, avrebbe dovuto garantire l’autonomia dell’ex colonia inglese fino al 2047. Vuol dire poter arrestare chi protesta, oppure dissidenti politici, senza che i cittadini possano avere il conforto di uno stato di diritto, ma affidandosi del tutto al sistema cinese. Tecnicamente tutto ruota attorno al famigerato articolo 23 della Basic Law di Hong Kong, quello che dice che il governo locale di Hong Kong “promuove autonomamente le leggi per proibire qualsiasi atto di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il governo centrale”. L’implementazione di questo articolo fu tentata nel 2003 (c’era un’altra epidemia, la Sars) e provocò una delle più grandi manifestazioni di protesta che si siano mai tenute a Hong Kong. A quel punto, l’articolo 23 fu di nuovo rimesso nel cassetto. Ma la grande differenza è che allora era stato il governo locale a proporre l’implementazione della legge, oggi invece è direttamente Pechino a voler imporre la sicurezza nazionale della Cina continentale anche alla regione autonoma. Pechino ha fatto sapere di voler proteggere il territorio anche dalle “influenze esterne”, e il riferimento è chiaramente all’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, la legge approvata sei mesi fa dall’America e che impone al governo di imporre sanzioni contro la Cina in caso di violazione dei diritti umani nell’ex colonia inglese, e di vigilare sulla sua autonomia.

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Se il 2020 è l’anno dell’epidemia da coronavirus, il 2019 è stato l’anno di Hong Kong: le proteste contro la proposta di legge sull’estradizione del governo locale di Carrie Lam, poi ritirata, nel corso dei mesi sono diventate sempre più grandi e imponenti, e sono cresciute anche in conseguenza dell’anomala violenza dimostrata dalle Forze dell’ordine nel tentare di sedarle. La polizia che godeva di più fiducia al mondo, quella di Hong Kong, lo scorso anno si è trasformata nella più violenta. E senza limiti, capace di arrestare e usare lacrimogeni contro ragazzini, attivisti, perfino parlamentari. Nel 2019 si è spezzato definitivamente il rapporto di fiducia tra cittadini e governanti a Hong Kong, e Pechino ha capito che l’unico modo per fermare le proteste è procedere alla modifica definitiva dello status quo. Per quanto riguarda il business, l’autonomia è ancora un vantaggio per Pechino. La vera spina nel fianco però è la società, e la nuova generazione di indipendentisti che guardano sempre di più a Taiwan.

 

E’ il modello taiwanese a far più paura alla Cina, soprattutto perché Taipei è diventato un territorio di scontro reale tra Washington e Pechino. Mercoledì c’è stato l’insediamento della presidente Tsai Ing-wen per il suo secondo mandato, molto celebrato alla Casa Bianca (Trump chiamò Tsai come primo atto da presidente, nel 2016). Giovedì la Cina ha condannato l’approvazione preliminare da parte del dipartimento di stato americano della vendita di armamenti a Taiwan per un valore stimato di circa 180 milioni di dollari. Se non esiste più “un paese, due sistemi” potrebbe saltare anche la “One China policy”, la politica di una sola Cina adottata da praticamente tutti i paesi del globo. 

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