PUBBLICITÁ

Il virus dei misteri

Giulia Pompili

I morti veri o presunti, i laboratori segreti, l’origine della pandemia. Ci sono risposte che forse non avremo mai. Il resto è propaganda

PUBBLICITÁ

Dovremmo forse cominciare ad ammettere che certe cose su questa pandemia non le sapremo mai. Conoscere la verità è un obiettivo, e la ricerca della verità è di certo più confortevole del dubbio e del sospetto. Ma abbandonare l’idea di avere alcune informazioni concrete, almeno nel breve periodo, è il primo passo per iniziare a occuparsi e preoccuparsi del resto. L’origine del nuovo coronavirus è uno di quei misteri che sin dall’inizio della pandemia ha fatto discutere politici, analisti e opinione pubblica. Ma è qualcosa – lo avremo capito ormai – che riguarda la ricerca scientifica, e non la teoria politica. L’invenzione del segretissimo laboratorio militare dove la Cina sperimenta armi di distruzione di massa accarezza l’idea romanzata della pandemia come flagello globale, ma ha anche un’altra funzione: darci un motivo, e un colpevole. Il problema è che non c’è solo il desiderio umano di verità, c’è anche la politica e l’uso che si può fare di certe teorie: scaricare su qualcun altro le responsabilità e guadagnare terreno nell’opinione pubblica.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Dovremmo forse cominciare ad ammettere che certe cose su questa pandemia non le sapremo mai. Conoscere la verità è un obiettivo, e la ricerca della verità è di certo più confortevole del dubbio e del sospetto. Ma abbandonare l’idea di avere alcune informazioni concrete, almeno nel breve periodo, è il primo passo per iniziare a occuparsi e preoccuparsi del resto. L’origine del nuovo coronavirus è uno di quei misteri che sin dall’inizio della pandemia ha fatto discutere politici, analisti e opinione pubblica. Ma è qualcosa – lo avremo capito ormai – che riguarda la ricerca scientifica, e non la teoria politica. L’invenzione del segretissimo laboratorio militare dove la Cina sperimenta armi di distruzione di massa accarezza l’idea romanzata della pandemia come flagello globale, ma ha anche un’altra funzione: darci un motivo, e un colpevole. Il problema è che non c’è solo il desiderio umano di verità, c’è anche la politica e l’uso che si può fare di certe teorie: scaricare su qualcun altro le responsabilità e guadagnare terreno nell’opinione pubblica.

PUBBLICITÁ

 

Lo scontro politico tra Usa e Cina, che si contendono l’influenza globale, riguarda anche l’uso dei misteri di questa pandemia

Lo scontro politico tra America e Cina, tra le due economie che si contendono l’influenza globale, riguarda anche l’uso dei misteri della pandemia in chiave propagandistica. In queste circostanze è molto facile sbagliare obiettivo. La Cina – o per meglio dire, Pechino e i funzionari della provincia dello Hubei – ha enormi responsabilità per questo capitolo terrificante della nostra storia. E’ responsabile soprattutto nei confronti dei cittadini cinesi, che non potranno mai usare il voto, per esempio, per manifestare il proprio scontento. E’ responsabile dal punto di vista della trasparenza, negata sin dal principio ai cittadini, e per giornalisti, attivisti e medici che sono stati accusati di diffondere fake news, o addirittura fatti sparire. La Cina è responsabile perché sta cercando di modificare la narrativa a suo favore: invece di riconoscere gli errori e rimediare, comportandosi da potenza responsabile, sta cercando di rafforzare la leadership di Xi Jinping e la sua influenza sul resto del mondo attraverso la “diplomazia delle mascherine”. Non solo: sta approfittando di un’emergenza globale minacciando l’autonomia di Hong Kong, l’esistenza stessa di Taiwan, la libertà di navigazione nel Mar cinese meridionale. Le libertà dei cinesi. Sapremo mai se Pechino ci ha nascosto per sbaglio o volontariamente quello che stava succedendo a Wuhan a metà dicembre? Forse no. Ma muoversi sul terreno dei misteri per attribuire responsabilità resta un esercizio pericoloso che può ritorcersi contro.

PUBBLICITÁ

 

Il segretario di stato americano, Mike Pompeo, in un’intervista qualche giorno fa ha ripetuto quella che sembra essere la posizione di Washington: “Ricorderete che il governo cinese è venuto a sapere dei primi casi di polmonite forse già a novembre, di sicuro a metà dicembre. Sono stati lenti a ufficializzarlo al mondo, compresa l’Organizzazione mondiale della sanità. Il problema della trasparenza è importante non solo come questione storica, cioè per capire che cosa è successo a novembre, a dicembre e a gennaio, ma è importante anche oggi. Perché ha ripercussioni su molte persone qui negli Stati Uniti e in tutto il mondo”. Su quel riferimento a “metà novembre” non ci sono elementi, mentre ci sono da metà dicembre. Eppure: la prima volta che il presidente americano Donald Trump ha parlato del coronavirus è stato il 22 gennaio scorso, il giorno in cui sono state annunciate misure restrittive “senza precedenti” a Wuhan, lodate perfino dallo stesso Trump. Il presidente allora disse di essere molto tranquillo perché era “tutto sotto controllo”. E lo ha ripetuto spesso, nel corso delle settimane. “Ogni paese, che sia una democrazia o no, deve condividere le informazioni in modo trasparente, aperto ed efficiente”, ha ribadito Pompeo in una conferenza stampa all’inizio di aprile.

 

La stampa, soprattutto quella americana, ha rilanciato più volte il mistero sul numero di morti che ha fatto davvero il virus in Cina

Ma neanche l’America, che ora è il paese con più contagiati al mondo, sa bene come dichiarare un numero realistico di pazienti affetti da Covid-19. Mancano i test, manca la capacità di coordinamento, come praticamente in tutti i paesi dove l’epidemia ha colpito più duramente. Lo stesso vale per le vittime: la stampa, soprattutto quella americana, ha rilanciato più volte il mistero sul numero di morti che ha fatto davvero il virus in Cina. Quarantamila, quaranta milioni. Si sparano i numeri contando le urne cinerarie distribuite a Wuhan. Oppure riprendendo “il mistero dei 21 milioni di utenze telefoniche scomparse”, una notizia mai verificata e rilanciata parecchio dai gruppi vicini ai Falun gong, perseguitati in Cina ma allo stesso tempo anche spesso autori di fake news contro il regime cinese. Gli articoli con “mistero” nel titolo, proprio come il virus, a un certo punto sono usciti dai confini cinesi e sono arrivati anche in Italia, nel resto d’Europa, fino in America. Il numero reale dei morti è sottostimato ovunque, e questo è un altro fatto che fa traballare le accuse di Trump e Pompeo contro la Cina del presidente Xi Jinping.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

La pandemia da nuovo coronavirus, il virus responsabile della malattia che è stata chiamata Covid-19 – secondo una regola dell’Organizzazione mondiale della Sanità che recentemente ha deciso di evitare che un flagello venga identificato geograficamente – è stata scoperta per la prima volta nell’area di Wuhan. Quando? E perché? Le domande che da mesi si pongono gli scienziati scivolano nella responsabilità politica. L’ipotesi che il virus fosse stato creato in laboratorio dai cinesi, e cioè che la sua struttura fosse stata modificata dall’ingegneria genetica, è stata smentita da molta letteratura scientifica: guardato da vicino, il virus è naturale. Su questo non possono esserci dubbi. Quindi nel tentativo di dar risposte al mistero si è passati a una teoria più soft: il laboratorio di Wuhan, un centro d’eccellenza per lo studio delle malattie infettive, è comunque responsabile. Non per dolo intenzionale ma per colpa cosciente. Le norme di sicurezza sono troppo basse in quel laboratorio e il coronavirus potrebbe essere sfuggito da lì, per errore. Ma come si fa a dimostrare un fatto simile?

 

PUBBLICITÁ

La teoria del traffico illegale di pangolino, il mammifero che secondo alcuni studi potrebbe essere stato l’animale “ospite” del virus nel suo salto dal pipistrello all’uomo, in un primo momento aveva eccitato i falchi anticinesi contro le “ignobili pratiche” del mangiare animali in Cina. Pechino ha quindi risposto accelerando la norma che mette al bando il commercio della fauna selvatica – una norma che per la verità era già in cantiere, perché non è da ieri che Xi Jinping tenta di civilizzare a tutti gli effetti la Cina e far abbandonare ai cinesi, soprattutto delle aree rurali, alcune pratiche controverse. Così, a un certo punto, la teoria del pangolino è sparita dai giornali, ed è tornata quella del laboratorio. Subito dopo la politica ha soffiato sulle teorie complottiste più che mai: il 13 marzo, cioè quando la Cina cominciava a rialzare la testa mentre il resto del mondo contava i propri morti, Zhao Lijian, portavoce e vicedirettore generale del dipartimento informazioni del ministero degli Esteri cinese, ha condiviso su Twitter una teoria complottista che continua a essere particolarmente citata in Cina. Zhao dice che a novembre a Wuhan c’erano i Giochi mondiali militari e anche i soldati americani, e quindi che potrebbero essere stati loro a introdurre il virus in Cina. Negli stessi giorni, Donald Trump durante la conferenza stampa sul virus parlava specificamente di “China Virus”, proprio per rispondere alle accuse.

 

Lo stato del Missouri ha presentato una causa civile in una corte federale contro la Cina. Anche l’Hotel de la Poste di Cortina

Il problema delle teorie complottiste non è nuovo, specialmente durante la prima pandemia dell’èra di internet. Ma anche nel 2003, durante l’epidemia di Sars, circolavano varie teorie sull’origine del virus: quasi sempre nato dal nemico di turno. In questo caso il passo in più l’ha fatto lo stato del Missouri, che ha presentato una causa civile depositata in una corte federale contro la Cina. “Il governo cinese ha mentito al mondo sui pericoli e sul livello di trasmissibilità del Covid-19”, dice il procuratore generale del Missouri, il repubblicano Eric Schmitt, “ha messo a tacere chi li denunciava e ha fatto poco per fermare la diffusione della malattia. Deve essere chiamato a rispondere di queste azioni”. L’Hotel de La Poste della nota località sciistica italiana di Cortina, invece, ha citato per danni il ministero della Sanità della Repubblica popolare cinese: “Ora che cominciano a emergere le responsabilità, ora che appare evidente la pericolosa mancanza di trasparenza che ha caratterizzato la prima fase, sottaciuta, dell’emergenza, ho sentito la necessità di agire in prima persona per chiedere, anzi, esigere, un’assunzione di responsabilità”, ha detto il proprietario Gherardo Manaigo, intervistato ormai da mezzo mondo. Andranno avanti queste cause? E’ una questione prima di tutto politica, e poi giudiziaria. Intanto anche i governi di Francia, Gran Bretagna e Germania iniziano a chiedere più collaborazione da parte della Cina, e il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas dice alla Bild che “Pechino deve essere trasparente su quello che concerne l’origine e la diffusione della pandemia, spero in un ruolo costruttivo da parte della Cina”.

 

Orhan Pamuk, uno dei più importanti scrittori turchi, premio Nobel per la Letteratura nel 2006, da quattro anni lavora al nuovo romanzo di prossima pubblicazione ambientato nel 1901, durante l’epidemia di peste bubbonica, che si chiama “Nights of Plague”. L’altro ieri Pamuk ha scritto sul New York Times che da quattro anni studia quella pandemia ed è arrivato a diverse conclusioni che possono aiutarci ad affrontare questa, di pandemia: “Nella storia dell’umanità e della letteratura ciò che rende simili le pandemie tra loro non sono soltanto batteri e virus, poiché anche le nostre risposte iniziali all’emergenza sono sempre state le stesse. La prima reazione allo scoppio di una pandemia è sempre la negazione. I governi nazionali e quelli locali hanno ritardato le loro reazioni, hanno distorto i fatti e manipolato i dati per negare l’esistenza dell’epidemia. Nelle prime pagine di ‘Diario dell’anno della peste’, un’opera letteraria illuminante sul contagio e sul comportamento umano, Daniel Defoe scrive che nel 1664 le autorità locali di alcuni quartieri di Londra cercarono di far sembrare minore il numero di morti per la pestilenza registrando le cause di morte per malattie inventate”. Il potere, spiega Pamuk, cerca di gestire la situazione ma la pandemia è una catastrofe naturale inarrestabile, e questo è ciò che spaventa di più i governanti di qualsiasi epoca: la paura della popolazione di fronte alla morte e alla sofferenza umana, che si concretizza nella rabbia non solo contro le istituzioni (anche religiose, scrive Pamuk, nel caso della peste di Defoe) ma in generale contro l’incertezza. Ed è proprio sul desiderio di certezze che a volte si concentra l’essere umano e azzarda spiegazioni. Un virus non è un tornado, un ciclone, un terremoto, qualcosa di concretamente visibile. Non solo: alcuni fenomeni naturali si ripetono ciclicamente sempre uguali, e nei limiti del possibile l’uomo è in grado di contrastarli, di salvarsi, applicando il principio di precauzione. Un virus invece è un sistema complesso, e soprattutto mutevole. Un nuovo virus è una nuova minaccia, non si possono usare le risposte del passato per contrastarne la forza distruttiva. E così arriva in aiuto la teoria del mistero, del segreto, della catastrofe e degli illuminati che svelano i colpevoli.

 

Un’altra cosa che hanno in comune tutte le fake news sulle pandemie del passato, dice Pamuk, è la teoria dell’“untore straniero”

Un’altra cosa che hanno in comune tutte le fake news sulle pandemie del passato, dice Pamuk, è il tentativo di darne la colpa a qualcuno che viene da lontano, che volontariamente oppure per superficialità non ha fermato l’epidemia. La teoria dell’“untore straniero”. A distanza di quattro mesi dall’inizio dell’epidemia di nuovo coronavirus abbiamo visto questa stessa teoria, in tempi diversi, applicata sia in occidente sia in oriente. All’inizio erano gli asiatici: a gennaio sono stati registrati vari episodi, anche in Italia, di discriminazione contro i cinesi (ma anche giapponesi, coreani, taiwanesi) considerati “untori”. Alla prima ondata di paura irrazionale c’è chi ha risposto con l’ormai arcinoto slogan “abbraccia un cinese” e le manifestazioni in via Paolo Sarpi a Milano, sede della grande comunità cinese meneghina. Alla fine di marzo, mentre la Cina iniziava a raggiungere i primi successi nel controllo dell’epidemia, l’Amministrazione dell’aviazione civile cinese ha deciso di limitare i voli internazionali a uno a settimana per affrontare il problema dei “casi di ritorno”, cioè quelli “di importazione”. Subito dopo Pechino ha deciso anche di limitare l’emissione di nuovi visti, fino a sconsigliare addirittura ai diplomatici stranieri che si trovassero momentaneamente fuori dal paese di rientrare in Cina: “L’immunità diplomatica non è un’immunità dal virus”, ha detto in conferenza stampa Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri. Un’epidemia porta con sé il problema oggettivo della mobilità delle persone, e quindi di eventuali vettori virali: complicato da combinare con un mondo globalizzato come quello in cui viviamo. E’ a questo, però, che serve la politica, anche e soprattutto a non mandare i messaggi sbagliati. E invece anche in Cina il pericolo di un ritorno all’emergenza ha fatto scattare un sentimento anti straniero. Un po’ ovunque in tutto il territorio nazionale, ma la situazione è precipitata soprattutto a Canton, dove c’è la più grande comunità di africani che per giorni sono stati controllati, testati, isolati, tanto che gli ambasciatori di tutti i paesi africani in Cina hanno scritto una lettera preoccupata al ministero degli Esteri di Pechino. Ed ecco il primo mistero da riconoscere e accettare come una tautologia: nessuno sa chi si porta dietro il fardello del virus, fino a quando non viene a saperlo.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ