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Voci da Detroit

Greta Privitera

In Michigan le proteste contro il lockdown “fanno male al cuore”. Storie della comunità anti virus

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Jerry Hebron è una signora di 70 anni che vive a ovest di Woodward Avenue, la storica strada che attraversa Detroit, in un quartiere che si chiama North End, dove oltre il 90 per cento della popolazione è afroamericana. “Qui le famiglie hanno redditi bassi e l’emergenza Covid-19 ha riportato la fame”, dice al telefono mentre prepara le ultime borse della spesa da consegnare. E’ una delle fondatrici di Oakland Avenue Urban Farm, un’associazione no profit che distribuisce pasti caldi alle persone rimaste con le dispense vuote. “In cinque settimane di lockdown, abbiamo distribuito oltre 13 mila pasti. Il virus è venuto a ricordarci che il razzismo strutturale incide su tutti gli aspetti della vita: quello sociale, economico e sanitario”. Il 79 per cento della popolazione di Detroit è composta da afroamericani, il 36 per cento di questi vive al di sotto della soglia di povertà. La città è diventata uno degli epicentri dell’epidemia e, sebbene gli afroamericani in Michigan siano solo il 14 per cento, rappresentano il 41 per cento delle oltre 2.800 vittime. Stessa sorte a Chicago, Milwaukee e New York.

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Jerry Hebron è una signora di 70 anni che vive a ovest di Woodward Avenue, la storica strada che attraversa Detroit, in un quartiere che si chiama North End, dove oltre il 90 per cento della popolazione è afroamericana. “Qui le famiglie hanno redditi bassi e l’emergenza Covid-19 ha riportato la fame”, dice al telefono mentre prepara le ultime borse della spesa da consegnare. E’ una delle fondatrici di Oakland Avenue Urban Farm, un’associazione no profit che distribuisce pasti caldi alle persone rimaste con le dispense vuote. “In cinque settimane di lockdown, abbiamo distribuito oltre 13 mila pasti. Il virus è venuto a ricordarci che il razzismo strutturale incide su tutti gli aspetti della vita: quello sociale, economico e sanitario”. Il 79 per cento della popolazione di Detroit è composta da afroamericani, il 36 per cento di questi vive al di sotto della soglia di povertà. La città è diventata uno degli epicentri dell’epidemia e, sebbene gli afroamericani in Michigan siano solo il 14 per cento, rappresentano il 41 per cento delle oltre 2.800 vittime. Stessa sorte a Chicago, Milwaukee e New York.

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“Lo ammetto, non ci aspettavamo questi numeri”, dice Matthew S., un dottore dell’University of Michigan, uno degli ospedali più grandi della zona, che preferisce rimanere anonimo. “A colpo d’occhio, nelle nostre terapie intensive è visibile l’effetto che il virus ha avuto sulla popolazione di colore”. Gli afroamericani hanno maggiori probabilità di essere disoccupati, senza un’assicurazione, e di conseguenza avere un accesso inferiore alle cure sanitarie. Hanno il 60 per cento di rischio in più di ammalarsi di diabete e di ipertensione, malattie che rendono il Covid-19 un virus letale. Spesso le persone occupate svolgono mestieri più esposti al contagio che non permettono lo smart working: sono operai nelle fabbriche di auto, cassieri al supermercato, autisti di autobus. “Abbiamo già perso tanti amici, io anche dei familiari, e vedere una manifestazioni di bianchi che imbracciano il fucile e urlano ‘ridateci la libertà’ fa male al cuore”, continua Hebron. Si riferisce alla manifestazione di alcune centinaia di repubblicani che il 15 aprile scorso, tra tante bandiere pro Trump e qualche confederata, si sono incontrati a Lansing, la capitale dello stato, per protestare contro le misure “tiranniche” della governatrice Gretcher Whitmer, la 48enne astro nascente del Partito democratico, tra le donne che Joe Biden potrebbe scegliere come vicepresidente. La governatrice ha prolungato il lockdown fino al 30 aprile, vietando gli incontri familiari e la possibilità di andare nelle seconde case. L’ala radicale dei conservatori s’è infuriata, sostenuta dai tweet del presidente Trump: “Liberate Minnesota”, “ Liberate Michigan”, “Liberate Virginia”.

 

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“Se siamo ridotti così è perché Trump non ha agito in tempo e il fatto che ora inciti chi vuole riaprire è da criminali”, dice Teferi Brent, un volontario della Detroit Grassroots Coronavirus Taskforce che aiuta il sindaco democratico di Detroit, Mike Duggan. “Non servono tweet, ma mascherine. Lavoro con le carceri e mi assicuro che all’interno ci siano i giusti dispositivi di protezione e che vengano fatti i tamponi. Ma la mancanza di mascherine è ancora grave in città, soprattutto nella comunità afroamericana”, dice.

 

Un’infermiera mi racconta che in effetti finalmente nel suo ospedale il personale sanitario è protetto, anche se la direzione chiede di non buttare le N-95 che sanificano a ogni fine turno, sotto raggi ultravioletti. Invece, a chi lavora sul territorio spesso manca tutto. John L., che preferisce rimanere anonimo, è un fisioterapista assunto da un’azienda che ha un contratto con il Beaumont Hospital: “Visitiamo i pazienti a casa, senza i dispositivi di sicurezza necessari. Non ci fanno tamponi e a chi si ammala dicono di tornare dopo cinque giorni dai sintomi”, racconta John che teme di diventare un veicolo di infezioni per i suoi pazienti.

 

Ad aiutare lavoratori come lui, non sono le aziende ma persone come Lesley Di Piazza, una designer di gioielli che ha iniziato un progetto di produzione di mascherine e di disinfettanti da distribuire a chi è a contatto con il pubblico e alle famiglie in difficoltà che ancora stavano curando le ferite della crisi economica del 2008.

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In Michigan, un quarto della forza lavoro ha richiesto il sussidio disoccupazione e Alexis Willey, capo staff del sindaco di Detroit, commenta: «E’ dura, ma ce la stiamo mettendo tutta, abbiamo fatto oltre 8 mila tamponi. Le polemiche con Trump non ci interessano: qui siamo impegnati a salvare vite”.

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