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L'Isis esulta per la rappresaglia di Dio

Daniele Ranieri

Lo Stato islamico festeggia la pandemia e vuole sfruttarla (ma il nuovo capo forse è già stato catturato)

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Roma. La crisi globale da coronavirus funziona come un accelerante per altre crisi, a cominciare da quella di sicurezza in medio oriente – dove lo Stato islamico approfitta della situazione. In Siria per la seconda volta in due settimane c’è stata una rivolta con evasione dalla prigione di al Hasaka, dove sono rinchiusi cinquemila uomini del gruppo. Ieri i jet americani volavano a bassa quota sopra la zona allo scopo di intimidire le cellule di terroristi che sono tentate di avvicinarsi al carcere per aiutare i loro compagni. La prigione di massima sicurezza in realtà è soltanto un istituto tecnico riadattato come si poteva, con le aule trasformate in celle collettive, ed è un luogo incredibilmente precario se si considera il ruolo cruciale che ha: contenere i combattenti stranieri più fanatici – inclusi quelli europei – e impedire loro di tornare a fare quello che facevano, quindi ad aggredire il resto del mondo. I curdi fanno quello che possono per tenere sotto controllo la situazione, ma quello che possono non è abbastanza. Hanno circondato l’area e dicono di avere ripreso quattro evasi, ma nella pandemia abbiamo perso anche le informazioni affidabili e nessuno sa con precisione cosa sta succedendo.

 

Dieci giorni fa lo Stato islamico ha teorizzato sul suo bollettino settimanale che la pandemia è una decisione di Dio per infliggere tormenti agli infedeli, che assorbirà le risorse delle loro nazioni e la loro attenzione. La crisi, dicono, deve essere sfruttata dai combattenti e come prima cosa nella loro lista dei desideri hanno messo: attaccare le prigioni e liberare gli altri fanatici per riformare le colonne armate di un tempo.

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Da settimane i simpatizzanti del gruppo sui social media festeggiano l’aggravarsi della pandemia che, notano, è partita prima dalla Cina che imprigiona milioni di musulmani poi è dilagata nell’Europa infedele che ha collaborato nella guerra allo Stato islamico e ora è arrivata con effetti devastanti negli Stati Uniti, che sono i responsabili maggiori della disfatta del Califfato. Il gruppo terrorista ha molto da rallegrarsi per questa supposta rappresaglia di Dio, perché l’anno scorso ha subìto una serie di tracolli quasi definitivi. Prima la capitolazione territoriale a Baghouz, proprio un anno fa, poi la morte del leader Abu Bakr al Baghdadi. Secondo una fonte del Foglio, il successore di Baghdadi, Abu Ibrahim al Qureshi, sarebbe stato fatto prigioniero nella zona di Idlib in Siria dai combattenti di Hts che è la sigla che indica un altro gruppo di fanatici. Questa notizia, che un tempo avrebbe scatenato mille speculazioni, per ora resta nel limbo delle dicerie che non si possono verificare. Si capisce però che nella nebbia delle brutte notizie i terroristi vedano nel Covid-19 un segno provvidenziale.

 

Se in Siria la situazione è critica, quasi lo stesso vale per l’Iraq dove la presenza delle truppe internazionali si sta riducendo di molto. I contingenti di addestratori, inclusi gli italiani, stanno lasciando il campo e la motivazione ufficiale spiega che lo fanno “temporaneamente” e per colpa della pandemia. In realtà quel temporaneamente è probabile che diventi un “per sempre” e la pandemia potrebbe coprire la vera ragione di nervosismo dei comandi militari, che è la possibilità di uno scontro imminente in Iraq fra le truppe americane e il gruppo filoiraniano Kataib Hezbollah. L’Amministrazione Trump vorrebbe cominciare una campagna contro i miliziani perché li ritiene il braccio locale della politica aggressiva del regime iraniano, ma ci sono alcuni elementi che frenano il via libera – fra questi la pandemia, che ha colpito in modo durissimo gli Stati Uniti. Così per ora, mentre le altre truppe si preparano ad andare via, i soldati americani hanno abbandonato alcune basi e si sono riposizionati in altre, più difendibili. Ma tra le basi abbandonate c’erano anche postazioni molto importanti nella guerra contro lo Stato islamico, come per esempio Kirkuk – dove a novembre i terroristi hanno ferito cinque incursori italiani – oppure al Qaim, che è al confine tra Iraq e Siria e faceva da sentinella per il viavai attraverso il confine nella regione di Mosul, che è infestata dallo Stato islamico (ricordiamo la battaglia di nove mesi per liberare la città nel 2017). Quando gli americani vanno via si portano dietro tutte le loro capacità – intelligence, sorveglianza elettronica, droni – che sono di grande aiuto per le forze irachene. Così, è come se gli iracheni perdessero i loro “radar anti Isis” nei luoghi dove il rischio di un ritorno è più forte. Tutto questo riposizionarsi degli americani in Iraq in vista di una possibile campagna contro i filoiraniani potrebbe spalancare ampi spazi incontrollati davanti allo Stato islamico. Davvero per il gruppo terrorista il virus è una benedizione – come del resto qualsiasi fattore che aumenti il caos e indebolisca l’ordine delle cose.

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