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Il “modello cinese” non è un trionfo

Daniele Ranieri

Cautela, c’è una seconda ondata di contagi in Cina e molto scontento

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Roma. Il “modello cinese” per trionfare contro il coronavirus che in questi giorni vediamo esaltato dai media di stato della Cina e lodato pure da noi in Italia potrebbe non essere così trionfante, nel senso che potrebbe non avere funzionato così bene come crediamo qui – dove siamo alla ricerca di un buon segno qualsiasi. C’è una seconda ondata di contagi che colpisce l’Asia e in particolare proprio la Cina, come scriveva il Financial Times di ieri. Il governo di Pechino sostiene che è tutta colpa dei casi di trasmissione di coronavirus da rientro – i cinesi che arrivano dall’estero – e che il loro numero è salito a 155 da cinquanta che erano due settimane fa. Eppure la Cina ha adottato una politica della quarantena obbligatoria per tutti gli arrivi da fuori – dura i soliti quattordici giorni, sono tenuti a pagare vitto e alloggio – e se la misura è efficace allora vuol dire che c’è ancora qualche sacca attiva di infezione sul territorio cinese. I racconti di ritorno alla normalità nello Hubei, la regione della Cina più colpita dal virus che cerca di uscire da cinquanta giorni di lockdown, andrebbero per questo presi con cautela. 

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Roma. Il “modello cinese” per trionfare contro il coronavirus che in questi giorni vediamo esaltato dai media di stato della Cina e lodato pure da noi in Italia potrebbe non essere così trionfante, nel senso che potrebbe non avere funzionato così bene come crediamo qui – dove siamo alla ricerca di un buon segno qualsiasi. C’è una seconda ondata di contagi che colpisce l’Asia e in particolare proprio la Cina, come scriveva il Financial Times di ieri. Il governo di Pechino sostiene che è tutta colpa dei casi di trasmissione di coronavirus da rientro – i cinesi che arrivano dall’estero – e che il loro numero è salito a 155 da cinquanta che erano due settimane fa. Eppure la Cina ha adottato una politica della quarantena obbligatoria per tutti gli arrivi da fuori – dura i soliti quattordici giorni, sono tenuti a pagare vitto e alloggio – e se la misura è efficace allora vuol dire che c’è ancora qualche sacca attiva di infezione sul territorio cinese. I racconti di ritorno alla normalità nello Hubei, la regione della Cina più colpita dal virus che cerca di uscire da cinquanta giorni di lockdown, andrebbero per questo presi con cautela. 

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Gli esperti parlano al massimo di “successo temporaneo e non permanente”. Mercoledì scorso le autorità della città di Qianjiang, 150 chilometri a est di Wuhan, che in teoria era una delle più sicure della zona perché ha avuto il minor numero di contagiati durante la crisi, hanno annunciato che alle dieci del mattino tutte le limitazioni al traffico sarebbero cadute e così è stato. Però le hanno imposte di nuovo alle dieci e trenta, quindi soltanto mezz’ora più tardi. La città è stata classificata come “ad alto rischio”. Sabato due altre città sempre nello Hubei, Xiaogan e Tianmen, anche loro sottoposte per tutto questo tempo alle misure restrittive, hanno aperto per un giorno e poi sono state di nuovo chiuse. Il comitato nazionale per la salute pubblica dice che c’è stato un nuovo contagio a Wuhan lunedì e un altro martedì, che certo sono un numero irrisorio rispetto ai quattromila al giorno di un mese fa ma non sono lo zero permanente. Ci vorrebbero i reporter delle grandi piattaforme internazionali a osservare sul campo la situazione, ma il governo cinese ha appena annunciato l’imminente cacciata dei i giornalisti di New York Times, Washington Post e Wall Street Journal. E’ una rappresaglia contro l’Amministrazione Trump che ha fissato a cento il limite di cinesi che possono lavorare in America per cinque media cinesi perché “non sono che bracci della propaganda di stato”. I reporter che dovranno lasciare la Cina erano stati incredibilmente utili sul campo durante l’epidemia per raccontare quello che il governo voleva invece coprire.

 

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Lunedì la rete Cnn ha raccontato la rabbia dei cittadini chiusi ancora nei loro appartamenti ai piani alti dei palazzi residenziali della città, durante la visita il 6 marzo scorso di un dignitario arrivato da Pechino – la vicepremier Sun Chunlan. Il comitato locale esaltava le virtù del sistema di approvvigionamento a basso prezzo di beni di prima necessità per i cittadini bloccati, ma quelli esasperati gridavano “E’ tutto falso” dalle finestre. La coreografia della cerimonia è saltata, Sun Chunlan è stata costretta a ordinare un’inchiesta. Quando quattro giorni dopo è arrivato il presidente Xi Jinping, la Cnn spiega di avere visto le foto ottenute via chat di poliziotti messi sui tetti per evitare le proteste dalle finestre.

 

Intanto a Malpensa in Italia arrivano altri due aerei (in fasi separate, il primo è già atterrato) con venti tonnellate di aiuti medici per fare fronte alla crisi, ma questa volta li manda dall’America un’associazione privata di evangelici e quindi non c’è la stessa attenzione – concertata con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio – che in questi giorni circondava le forniture di materiale arrivate dalla Cina. I sessanta volontari americani della Samaritan’s Purse andranno a lavorare all’ospedale di Cremona, che come tutte le strutture lombarde in queste settimane è sotto una pressione incredibile.

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