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Pangolino arrosto? Sushi di ratto? Che cosa sono davvero i wet market

Giulia Pompili

Mercati e macelli sono diffusi in tutta l’Asia (e non solo)

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Roma. È colpa del pipistrello. Anzi no, è colpa del pangolino. Ma voi lo avete mai visto un pangolino? Improvvisamente la Cina è tornata un paese con “standard sanitari non compatibili” con il mondo occidentale. È curioso, a cominciare dal fatto che nel 2018 l’Italia ha importato cibi e bevande dalla Cina per 595 milioni di euro. Il problema è che tra “abbraccia un cinese” e “tutti hanno visto i video dei cinesi che mangiano i topi vivi”, nell’ansia spasmodica di trovare un colpevole per l’emergenza-pandemia, si rischia quello che chiameremmo “l’effetto Corea del nord”. Si tratta di un altro virus molto diffuso in Italia, che suscita in commentatori e politici il desiderio di parlare di qualunque cosa spesso a vanvera, per luoghi comuni e pregiudizi. Siccome non è verificabile o immediatamente verificabile – come con le faccende nordcoreane, appunto – “i cinesi mangiano i topi vivi” risulta comunque un’espressione verosimile per la maggioranza degli italiani. Ma non è il rischio razzismo a preoccuparci. Il problema è che rilanciare una evidente fake news per rassicurare il paese reale da una potenziale minaccia (Zaia probabilmente voleva dire: qui non mangiamo i topi vivi, quindi siamo al sicuro) ha lo stesso valore del continuare a piazzare in prima pagina “il virus fatto in laboratorio a Wuhan”, una notizia smentita o comunque non verificabile. Allora bisognerebbe anzitutto spiegare che gli scienziati, per far fronte al diffondersi di un virus di cui conosciamo ancora pochissimo, vanno per tentativi. È una specie di inchiesta investigativa su scala globale: bisogna cercare l’animale che ha originato il virus ma anche “l’ospite”: se infatti il virus non è passato direttamente dal primo animale all’uomo, allora vuol dire che c’è un animale intermedio che ha fatto da “salto” per gli esseri umani. Quando si parla di questo tipo di virus i principali indiziati sono quasi sempre i pipistrelli, che hanno una gran capacità di adattare il proprio sistema immunitario, e sono diffusi ovunque. Per quanto riguarda l’animale “ospite”, all’inizio si era parlato dei serpenti. Poi l’ipotesi è stata accantonata, ed è venuto fuori un altro animale: il pangolino, un mammifero in via d’estinzione, simile al formichiere, le cui squame sono usate dalla medicina tradizionale cinese. Ma il pangolino è anche l’animale più trafficato illegalmente nel mondo. Vuol dire che non viene cacciato solo in Cina, ma anche – soprattutto, dicono alcune ong – in Africa, in America latina, nel sudest asiatico. Il pangolino, insomma, non è l’animale che vi trovate davanti appena mettete piede in un mercato asiatico. Così come non esistono ristoranti improvvisati per strada con pipistrelli bolliti. Il pipistrello in Asia è un animale che porta fortuna, ma avete più possibilità di mangiare i piccioni (i piccioni! I topi volanti!) o le nutrie (le nutrie! I topi nuotanti!) in Italia.

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Roma. È colpa del pipistrello. Anzi no, è colpa del pangolino. Ma voi lo avete mai visto un pangolino? Improvvisamente la Cina è tornata un paese con “standard sanitari non compatibili” con il mondo occidentale. È curioso, a cominciare dal fatto che nel 2018 l’Italia ha importato cibi e bevande dalla Cina per 595 milioni di euro. Il problema è che tra “abbraccia un cinese” e “tutti hanno visto i video dei cinesi che mangiano i topi vivi”, nell’ansia spasmodica di trovare un colpevole per l’emergenza-pandemia, si rischia quello che chiameremmo “l’effetto Corea del nord”. Si tratta di un altro virus molto diffuso in Italia, che suscita in commentatori e politici il desiderio di parlare di qualunque cosa spesso a vanvera, per luoghi comuni e pregiudizi. Siccome non è verificabile o immediatamente verificabile – come con le faccende nordcoreane, appunto – “i cinesi mangiano i topi vivi” risulta comunque un’espressione verosimile per la maggioranza degli italiani. Ma non è il rischio razzismo a preoccuparci. Il problema è che rilanciare una evidente fake news per rassicurare il paese reale da una potenziale minaccia (Zaia probabilmente voleva dire: qui non mangiamo i topi vivi, quindi siamo al sicuro) ha lo stesso valore del continuare a piazzare in prima pagina “il virus fatto in laboratorio a Wuhan”, una notizia smentita o comunque non verificabile. Allora bisognerebbe anzitutto spiegare che gli scienziati, per far fronte al diffondersi di un virus di cui conosciamo ancora pochissimo, vanno per tentativi. È una specie di inchiesta investigativa su scala globale: bisogna cercare l’animale che ha originato il virus ma anche “l’ospite”: se infatti il virus non è passato direttamente dal primo animale all’uomo, allora vuol dire che c’è un animale intermedio che ha fatto da “salto” per gli esseri umani. Quando si parla di questo tipo di virus i principali indiziati sono quasi sempre i pipistrelli, che hanno una gran capacità di adattare il proprio sistema immunitario, e sono diffusi ovunque. Per quanto riguarda l’animale “ospite”, all’inizio si era parlato dei serpenti. Poi l’ipotesi è stata accantonata, ed è venuto fuori un altro animale: il pangolino, un mammifero in via d’estinzione, simile al formichiere, le cui squame sono usate dalla medicina tradizionale cinese. Ma il pangolino è anche l’animale più trafficato illegalmente nel mondo. Vuol dire che non viene cacciato solo in Cina, ma anche – soprattutto, dicono alcune ong – in Africa, in America latina, nel sudest asiatico. Il pangolino, insomma, non è l’animale che vi trovate davanti appena mettete piede in un mercato asiatico. Così come non esistono ristoranti improvvisati per strada con pipistrelli bolliti. Il pipistrello in Asia è un animale che porta fortuna, ma avete più possibilità di mangiare i piccioni (i piccioni! I topi volanti!) o le nutrie (le nutrie! I topi nuotanti!) in Italia.

   

Per gli scienziati il problema non è mangiare l’animale (specie se cotto) ma il sistema di macellazione collettivo: cioè animali vivi e morti nello stesso ambiente, spesso con sistemi di aerazione e pulizia carenti. Quello che non si sottolinea abbastanza (anzi quasi mai) è che i mercati di animali vivi sono un problema, preso seriamente da tempo da quasi tutti i paesi asiatici. E per ovvie ragioni sanitarie: fino allo scorso anno a Busan, la seconda città sudcoreana, al mercato di Gupo si poteva trovare la verdura accanto alle gabbiette dei cani. Che venivano macellati lì sul posto, insieme alle galline. Così nella civilissima Tokyo dopo un lungo braccio di ferro con i venditori è stato chiuso il mercato del pesce Tsukiji. Era un posto frequentatissimo dai turisti – a cui evidentemente piaceva l’esotico pericolo del pesce mangiato fresco dove era difficile controllare gli standard sanitari. Da anni il governo di Pechino – soprattutto dopo l’epidemia di Sars del 2003 – ha iniziato una campagna per la “civilizzazione” delle aree rurali, ma è un processo lento, perché va riconvertita un’intera economia. E già da tempo si parlava di una chiusura di tutti i mercati simili a quello di Wuhan, provvedimento poi deciso da Pechino il mese scorso. L’unica cosa che legava i primi pazienti di Wuhan era l’aver frequentato il mercato di animali vivi della capitale dello Hubei. È quindi probabile che venisse da lì, il virus, ma non abbiamo ancora una conferma scientifica. La Cina è un paese che ha moltissime colpe in questa emergenza globale, di comunicazione, di trasparenza. È politicamente efficace per noi parlare di “standard sanitari incompatibili”, ma la realtà dei fatti è molto più complessa. È stata proprio la corsa alla modernizzazione – Wuhan è una megalopoli ipertech da undici milioni di abitanti, e non un paesello rurale del terzo mondo come si sente dire in questi giorni – che ha compromesso l’ecosistema, l’equilibrio tra uomo e natura. È, questo sì, un fattore che può aumentare il rischio di pandemie nei prossimi decenni.

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