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Bye bye Europe. La Grande scommessa di BoJo

Stefano Cingolani

È arrivato il giorno dell’addio. Ma tra Regno Unito ed Europa unita c’è una lunga storia di attrazione e repulsione. Adesso Londra è sola tra America e Cina, e quando vorrà stabilità, la dovrà cercare a Bruxelles

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Il mandolino del capitano Corelli suona il valzer delle candele. Non parliamo di Nicolas Cage che lo ha interpretato sullo schermo, ma dello scrittore inglese Louis de Bernières creatore del personaggio che gli ha portato successo. “Nel 1975 avevo 20 anni e ho votato per la partecipazione della Gran Bretagna nell’Unione europea”, racconta sul Financial Times. “Nel 2016 la mia generazione ha votato per tornare indietro. Perché abbiamo cambiato idea?”. E’ la domanda che si pongono in molti, a cominciare da noi, al di qua della Manica, che siamo restati nell’Unione e vogliamo rimanerci. Le sue risposte per la verità sono abbastanza scontate: la eurocrazia di Bruxelles, il timore di un superstato, la forza egemonica della Germania dopo la riunificazione, la voglia di recuperare i legami con il Commonwealth, i ricordi del glorioso passato e via sospirando. “Abbiamo commesso un errore”, insiste, “e tuttavia io sono europeo per cultura e per eredità” (la sua famiglia ha origini francesi ugonotte). I britannici, questo il suo pensiero, stanno meglio da soli. Contro tutti? No, insieme a tutti. Tedeschi e francesi, portoghesi e spagnoli, scozzesi e irlandesi, se siamo o no nell’Unione europea, siamo comunque tutti una famiglia. “La nostra relazione con l’Europa sarà in futuro quella che è stata per duemila anni, una oscillazione tra i poli dell’amore e dell’odio, rispetto e mancanza di rispetto, ammirazione e disdegno, cooperazione e maleducazione, fascino e disprezzo, dipende da quel che la provvidenza getta sul nostro cammino”. La pensa così, in sostanza, anche Boris Johnson il quale, respinta sia la Britannia europea sia una piccola Britannia, sogna una Britannia globale: GB non sarà più l’acronimo per Great Britain, ma per Global Britain. 

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Il mandolino del capitano Corelli suona il valzer delle candele. Non parliamo di Nicolas Cage che lo ha interpretato sullo schermo, ma dello scrittore inglese Louis de Bernières creatore del personaggio che gli ha portato successo. “Nel 1975 avevo 20 anni e ho votato per la partecipazione della Gran Bretagna nell’Unione europea”, racconta sul Financial Times. “Nel 2016 la mia generazione ha votato per tornare indietro. Perché abbiamo cambiato idea?”. E’ la domanda che si pongono in molti, a cominciare da noi, al di qua della Manica, che siamo restati nell’Unione e vogliamo rimanerci. Le sue risposte per la verità sono abbastanza scontate: la eurocrazia di Bruxelles, il timore di un superstato, la forza egemonica della Germania dopo la riunificazione, la voglia di recuperare i legami con il Commonwealth, i ricordi del glorioso passato e via sospirando. “Abbiamo commesso un errore”, insiste, “e tuttavia io sono europeo per cultura e per eredità” (la sua famiglia ha origini francesi ugonotte). I britannici, questo il suo pensiero, stanno meglio da soli. Contro tutti? No, insieme a tutti. Tedeschi e francesi, portoghesi e spagnoli, scozzesi e irlandesi, se siamo o no nell’Unione europea, siamo comunque tutti una famiglia. “La nostra relazione con l’Europa sarà in futuro quella che è stata per duemila anni, una oscillazione tra i poli dell’amore e dell’odio, rispetto e mancanza di rispetto, ammirazione e disdegno, cooperazione e maleducazione, fascino e disprezzo, dipende da quel che la provvidenza getta sul nostro cammino”. La pensa così, in sostanza, anche Boris Johnson il quale, respinta sia la Britannia europea sia una piccola Britannia, sogna una Britannia globale: GB non sarà più l’acronimo per Great Britain, ma per Global Britain. 

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“Nel 2016 la mia generazione ha votato per tornare indietro. Perché abbiamo cambiato idea?”, si domanda De Bernières


 

Sia De Bernières sia BoJo, però, la fanno troppo facile. Siamo di fronte a un esperimento politico, economico e sociale di grande portata, condotto da un esponente della élite conservatrice, un intellettuale ambizioso e preparato che ha mangiato pane e politica fin da piccolo, non si tratta di un Orbán e nemmeno di un Trump. Se riesce può diventare il punto di riferimento per tutti gli antieuropeisti, ma attenzione: la Global Britain richiede libertà di scambi, liberalizzazioni, deregulation, più mercato, un’ampia proiezione esterna, anche di natura militare; invece i sovranisti, a cominciare da quelli italiani, vogliono più stato, più protezione, più regole, meno mercato e starsene a casa propria, paradossalmente sono più vicini al modello europea che a quello britannico. Ma la politica, oggi meno che mai, non si fa solo con il calcolo razionale.

 

La Brexit comincia adesso, quando dal dire si passa al fare. Finora abbiamo parlato ora bisogna operare. Si apre fra Bruxelles e Londra un negoziato destinato a determinare i rapporti bilaterali; commerci, immigrazione, sicurezza, welfare, diritti, i dossier si affollano e s’incrociano. Su indicazione di Boris Johnson, il Parlamento britannico ha approvato una legge che vincola il Regno Unito a concludere il periodo di transizione concordato con la Ue entro la fine di quest’anno, una vera corsa contro il tempo. E il tempo è ballerino e traditore. 


Siamo di fronte a un esperimento politico, economico e sociale di grande portata, condotto da un esponente della élite conservatrice


 

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Sono all’opera i cantori di Westminster che esaltano il coraggio degli inglesi (perché di loro si tratta visto che gli scozzesi sono in maggioranza contrari e nell’Ulster temono una reazione a catena con la Repubblica d’Irlanda). Ad essi rispondono i profeti di sventura, con fior di dotte e dettagliate analisi sui rischi, i pericoli e i prezzi comunque molto alti. Un documento di fonte governativa pubblicato nel novembre 2018 sosteneva che il pil si ridurrà del 5 per cento. Martin Wolf sul Financial Times scrive che “mai nella mia vita un governo britannico è stato tanto determinato a infliggere danni economici al suo popolo”. Senza il Regno Unito, l’Unione europea avrà comunque 450 milioni di abitanti con una quota del 18 per cento del prodotto lordo mondiale e resterà comunque il più importante partner commerciale. 


Si apre fra Bruxelles e Londra un negoziato destinato a determinare i rapporti bilaterali; i dossier si affollano e s’incrociano


 

A Bruxelles possono essere tentati dalla voglia di rendere la vita più difficile a Boris Johnson, ma ogni rivalsa sarebbe perniciosa nel breve e ancor più nel medio periodo. Se il progetto fallisce, solo in apparenza sarà il trionfo dell’europeismo, perché la Gran Bretagna verrà spinta ancor più lontano, preda di potenze ben più grandi di lei e della stessa Unione europea. Non è nel nostro interesse che ciò avvenga, ancor meno nell’interesse dell’Italia la quale ha sempre cercato una sponda nella “perfida Albione”, da Cavour a Mussolini (tra giri di valzer e gioco dei quattro cantoni) e poi anche nei decenni della Prima Repubblica. Persino dopo l’introduzione dell’euro Londra ha rappresentato un bilanciamento rispetto all’asse franco-tedesco. Ciò vale per l’economia, ma ancor più per la politica estera e di sicurezza, compresa l’industria militare, là dove l’Italia è sempre stata più atlantista della Francia e talvolta persino della Germania. Insomma, se tra Dover e Calais viene eretto un muro sono guai seri per il resto dell’Europa e per l’Italia. La Gran Bretagna è out, però per noi è fondamentale che resti il più possibile in. 


Persino dopo l’introduzione dell’euro Londra ha rappresentato un bilanciamento rispetto all’asse franco-tedesco europeo


 

La Brexit ha avuto i suoi alti e bassi: potrebbe essere rappresentata graficamente da una curva sinusoidale in funzione del fattore t, come tempo. A proposito, Brixit o Brexit? Nell’agosto del 2012, in piena crisi greca, la banca d’affari Nomura mise in guardia la City dal rischio di un collasso non solo della zona euro, ma dell’Unione europea: “La Brixit diventa sempre più probabile”, scrissero gli analisti nel loro rapporto. Poco dopo, il Daily Mail, il quotidiano tabloid tradizionalista più ancora che conservatore, scrisse in un suo commento: “Bring on the Brixit”, che in gergo giornalistico può essere tradotto “Avanti con la Brixit”. Ma l’Oxford English Dictionary attribuisce l’onore a Peter Wilding, fondatore e direttore del think tank British Influence. In un tweet del 15 maggio 2012 scrisse: “Inciampando nella Brexit” e chiese “un referendum e una resa dei conti”. Wilding in verità non voleva l’uscita dalla Ue, tutto il contrario, tanto che il suo pensatoio fece campagna per rimanere e lui votò “remain” al referendum del 2016. L’idea di un redde rationem affascinò il premier britannico David Cameron convinto di stroncare in questo modo la pressione dell’ala destra del partito conservatore, garantendosi così una navigazione più sicura. Sappiamo come è finita, Cameron ha sbagliato i suoi calcoli. 


L’idea di un redde rationem affascinò il premier britannico David Cameron. Sappiamo com’è finita: si sbagliava


 

Tra Regno Unito ed Europa unita c’è una lunga storia di attrazione e repulsione. Limitandoci al secondo Dopoguerra, troviamo in mezzo alla Manica la troneggiante figura di Charles de Gaulle, l’uomo che l’Inghilterra ha ospitato, sostenuto, per molti versi costruito nella lotta contro la Germania nazista anche se nel 1943 Winston Churchill aveva proposto di rovesciare “questo francese vanitoso e maligno”. Il Regno Unito non era tra i firmatari dei trattati originari che vennero incorporati nella Comunità europea con il Trattato di Roma del 1957. Londra cominciò i colloqui per un eventuale ingresso solo nel 1961. Due anni dopo chiese apertamente di entrare nel club, ma de Gaulle oppose il suo veto e lo ripeté nel 1967. “Ci sono numerosi aspetti della economia britannica, dal mercato del lavoro all’agricoltura”, sentenziò il generale diventato presidente della Repubblica, “che rendono la Gran Bretagna incompatibile con l’Europa e alimentano una radicata ostilità a ogni progetto paneuropeo”. Modello renano contro modello anglosassone, “capitalismo contro capitalismo” come scrisse Michel Albert nel suo libro pubblicato nel 1991 l’anno di Maastricht. Oggi il dilemma si ripropone.

 

De Gaulle lasciò l’Eliseo nel 1969 e Londra presentò una terza domanda. L’atteggiamento verso Bruxelles era cambiato, ma anche a Parigi era caduta ogni ostilità nei confronti del Regno Unito. Il trattato di adesione venne firmato nel 1972 dal conservatore Edward Heath e nel 1975 due terzi dei britannici votarono sì. Il partito laburista rimase profondamente diviso sia quando era al governo sia quando venne sconfitto da Margaret Thatcher la quale, pur tra critiche e riserve, non volle mai uscire: negoziò invece con risultati nettamente favorevoli le clausole di opt-out e nel 1990 vincendo contrasti nel partito e convinzioni private aderì al Sistema monetario europeo legando la sterlina alle altre valute in quel che veniva chiamato il serpentone. Non durò molto. La Thatcher si dimise quello stesso anno e nel 1992 la lira sterlina venne costretta ad abbandonare lo Sme insieme alla lira italiana. 


BoJo dovrà dare prova delle sue indubbie capacità politiche al di fuori dei confini britannici. Ma niente comportamenti clowneschi


 

Scottato da quella esperienza, il Regno Unito ha firmato il Trattato di Maastricht, ma non ha adottato l’euro. Non solo, da allora l’euroscetticismo ha fatto passi da gigante. Nel 1994 il magnate James Goldsmith fonda un partito del referendum con l’obiettivo di lasciare la Ue. Non decollerà mai per la morte prematura del finanziere, ma è il primo vero nucleo per la Brexit. Tony Blair tiene a freno le spinte centrifughe nel suo partito che vengono soprattutto da sinistra e si afferma come il più europeista dei leader laburisti. Mentre a destra nasce nel 1993 il partito indipendentista, lo Ukip di Nigel Farage che ha giocato un ruolo importante per la Brexit. Allora gli euroscettici, secondo i sondaggi, erano appena il 38 per cento della popolazione. Ma nel 2015, anche grazie alla crisi economica e alle convulsioni interne all’area euro, erano saliti a due terzi. Paradossalmente, possiamo dire che è stato un successo se il 23 giugno 2016 la secessione ha vinto con “solo” il 51,89 per cento. Tra il suicidio di Cameron, l’ingeneroso massacro subìto da Theresa May, i pasticci di Jeremy Corbyn, si colloca l’ascesa tumultuosa di BoJo.

 

“Usciamo dalla Ue non dall’Europa”: Jill Morris, ambasciatrice britannica a Roma ripete la formula canonica della diplomazia che richiama il solito Churchill (“siamo con loro, ma non dei loro”, diceva nel 1952 riferendosi alla comunità europea di difesa promossa dalla Francia e dall’Italia). “La Brexit è destinata a modificare le dinamiche interne all’Unione europea”, sostiene Marta Dassù, viceministro degli esteri nel governo Monti. “E’ già evidente l’aspirazione della Francia a proporsi come leader politico-militare del Vecchio continente, bilanciando così la potenza economica della Germania. Per l’Italia, la perdita della sponda britannica è un problema, per contare nei nuovi equilibri europei, dovrà aumentare il proprio peso specifico, cosa non esattamente semplice ma necessaria. Una domanda essenziale da porsi è se un’Europa senza Gran Bretagna sarà più dirigista in economia e più aperta verso la Russia in politica estera. La risposta è probabilmente sì, su entrambi i fronti”. Marta Dassù ha scritto un libro insieme al politologo Edoardo Campanella intitolato “Anglo Nostalgia”; pubblicato in inglese, verrà tradotto per la casa editrice dell’Università Bocconi. In un mondo dominato dalla politica delle emozioni, la nostalgia ha giocato un ruolo importante nel dare spinta e sostanza alla Brexit. Nostalgia dell’impero perduto, del ruolo svolto nella storia, della potenza economica e militare, dei valori della vecchia Inghilterra, diffidenza verso gli immigrati, soprattutto europei. “Ma la nostalgia ha molte facce”, scrivono gli autori, “può essere usata in modo del tutto opposto, offensivo, difensivo, cooperativo in rapporto alle circostanze”. E qui si annidano le contraddizioni della Brexit e dello stesso modello che BoJo vuole realizzare. 


Londra cominciò i colloqui per un eventuale ingresso solo nel 1961. Due anni dopo chiese apertamente di entrare nel club


 

Prendiamo il ritorno del Commonwealth. I paesi di maggior rilievo sono il Canada, l’Australia e l’India; nessuno di loro guarda a Londra non come la madre patria, ma nemmeno come punto di riferimento. Il Canada, integrato negli accordi di libero scambio con gli Stati Uniti e il Messico, rinnovati da Donald Trump anche se con alcune differenze non insignificanti rispetto al Nafta negoziato da George Bush padre, ha accentuato in tutti questi anni la sua dimensione americana. L’Australia è diventata il vertice di un triangolo del Pacifico che la collega da un alto alla Cina e al sud est asiatico, dall’altro agli Stati Uniti. La Global Britain di BoJo, dunque, nutre in seno altre grandi e importanti concorrenti globali. Quanto all’India persegue una sua strategia da sub potenza economica e militare, mentre il nazionalismo di Modi rappresenta “una minaccia per la più grande democrazia del mondo”, scrive l’Economist.

 

L’anglosfera si manifesta come un progetto astratto. Tanto più quando si analizza la “relazione speciale” con gli Stati Uniti. America First entra in contraddizione con Global Britain su dazi e tariffe. Sulle tecnologie digitali come sull’intrattenimento, i britannici restano dipendenti dagli Stati Uniti, la Brexit non cambia nulla. Ciò vale ancor più per l’intera rete difensiva (a cominciare da quella nucleare). Un punto particolarmente sensibile riguarda lo scambio di informazioni da parte dei servizi segreti, anche perché entra in gioco la politica estera dove Usa e Gran Bretagna non si muovono esattamente di conserva. Gli inglesi non dimenticano che a dare il colpo di maglio al loro impero sono stati gli americani quando nel 1956 intimarono alle truppe di Sua Maestà di mollare il canale di Suez occupato insieme a francesi e agli ex nemici israeliani, per contrastare l’Egitto appoggiato dall’Unione sovietica. Londra ha continuato a mantenere rapporti stretti quanto sulfurei con gli sceicchi del Golfo Persico e con Teheran. Sull’Iran Johnson si è allineato con Emmanuel Macron e Angela Merkel e dopo l’uccisione di Soleimani ha invitato a una de-escalation. 


In un mondo dominato dalla politica delle emozioni, la nostalgia ha giocato un ruolo importante nel dare spinta e sostanza alla Brexit 


Uno dei cavalli di battaglia dei Brexiters è che la Nato non la Ue ha garantito la pace in Europa. E’ vero negli anni della Guerra fredda, anche se bisogna considerare quanto la Ostpolitik da Willy Brandt a Helmut Kohl abbia contribuito a smantellare il muro di Berlino o a far scattare la scintilla di Solidarnosc in Polonia. E’ meno vero dagli anni ’90 in poi. In Jugoslavia sia la Ue sia la Nato hanno fatto fallimento perché è mancata una politica estera comune in Europa e si è aperto un conflitto di interessi e di strategia con gli Stati Uniti. Londra ha sempre guardato con attenzione particolare a Belgrado (Lord Carrington che presiedette i colloqui sulla spartizione del paese era da sempre filo serbo), ma fu spinta da Madeleine Albright, che guidava la politica estera di Bill Clinton, a intervenire in Kosovo con l’Italia e la Germania, anch’esse riluttanti. La questione di fondo resta l’atteggiamento verso la Russia: coinvolgere Mosca o sfidarla? Su questo sia la Ue sia la Nato restano divise, con la Gran Bretagna protettrice degli interessi dei paesi del nord e in particolare di quelli baltici contro gli artigli dell’orso russo.

 

BoJo dovrà dar prova delle sue indubbie capacità politiche al di fuori dei confini britannici, a condizione di sostituire ai comportamenti clowneschi un aplomb da statista. Ne ha le capacità, ma il carattere può prendergli la mano. Punterà le sue carte sulla rielezione di Trump, probabile, anche se non scontata. Tuttavia l’imprevedibilità del presidente americano potrebbe trasformarsi in un boomerang. Brexit è stata utile per dare un colpo all’Unione europea e alla Germania, però i legami con la Cina possono diventare una bomba a orologeria per Boris Johnson. Lo dimostra la scelta di far partecipare Huawei, sia pur con una serie di restrizioni, allo sviluppo della rete 5G, sfidando il veto americano. Anche se fosse solo un espediente furbesco per ottenere speciali concessioni, è chiaro che con zio Sam non saranno rose e fiori.

 

L’altro grande interrogativo è di politica interna. Il Regno sarà più disunito? Una secessione scozzese è improbabile, nondimeno la Scozia diventa una spina nel fianco, mentre l’Irlanda del Nord cammina sul filo sottile dell’ambiguità: non c’è frontiera tra la Belfast britannica e la Dublino europea, eppure i controlli doganali ci saranno oltre il Canale del Nord. La Brexit non ricuce lo strappo tra Londra, la metropoli globale e la local England, troppo profonda e di lunga data è la grande trasformazione che risale agli anni ’80 quando il big bang finanziario accelerò la deindustrializzazione del paese e mise la City sul piedistallo. Ci vorranno molti soldi e bisognerà trovarli con le tasse o stampando moneta e creando inflazione, ma non basterà comunque investire di più nelle infrastrutture o riportare qualche fabbrica a Manchester. Non solo: né il porto di Liverpool né quello di Londra sono in grado di soppiantare Rotterdam e Anversa perché i giochi dello scambio si svolgono ormai tra la Cina e il grande mercato europeo. Che cosa ha da esportare la Gran Bretagna nel mondo oltre ai servizi finanziari? Non la moda, non più nemmeno quella maschile. Le mitiche scarpe Church sono italiane (di Prada). Harris tweed è da sempre scozzese. Il cinema langue in buona parte d’Europa. Sky è passata agli americani di Comcast. Le auto cult come le Mini sono tedesche (della Bmw), la Land Rover è indiana (del gruppo Tata). Nulla di male, ma dov’è la Old Britannia? Ahi nostalgia, nostalgia canaglia.

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