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Il vero virus che la Cina non può curare

Claudio Cerasa

La Commissione sospende i viaggi in Cina. Toyota interrompe la produzione. Starbucks chiude metà dei negozi. Il virus mette paura. Ma la vera crisi con cui deve fare i conti la Cina riguarda la sfiducia generata dai regimi illiberali. Il vaccino c’è: la globalizzazione

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La Commissione europea, ieri, ha sospeso i viaggi di tutti i suoi funzionari diretti e provenienti dalla Cina. Lo stesso ha fatto British Airways, compagnia di bandiera britannica, che sempre ieri ha deciso di sospendere tutti i voli diretti e provenienti dalla Cina. La United Airlines, qualche ora prima, aveva fatto lo stesso con i suoi collegamenti con Pechino, Shanghai e Hong Kong. Anche l’indonesiana Lion Air, la più importante compagnia aerea del sud-est asiatico, ha appena deciso di interrompere tutti i voli con la Cina a partire dal 1° febbraio. Una della case automobilistiche più importanti del mondo, la Toyota, qualche giorno fa ha seguito una strada simile e ha interrotto la sua produzione in Cina fino al prossimo 9 febbraio. La catena di caffè americana Starbucks, sempre ieri, ha annunciato la chiusura temporanea di metà dei propri punti vendita in Cina (in tutto sono 4.292 negozi) e pochi giorni prima anche McDonald’s aveva preso la stessa decisione. Il 28 gennaio anche Apple ha fatto sapere di aver chiuso uno dei negozi in Cina e di aver ridotto l’orario degli altri store e lo stesso hanno fatto lo Shanghai Disney Resort e l’InterContinental Hotels Group che hanno annunciato pochi giorni fa di aver temporaneamente chiuso i battenti.

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La Commissione europea, ieri, ha sospeso i viaggi di tutti i suoi funzionari diretti e provenienti dalla Cina. Lo stesso ha fatto British Airways, compagnia di bandiera britannica, che sempre ieri ha deciso di sospendere tutti i voli diretti e provenienti dalla Cina. La United Airlines, qualche ora prima, aveva fatto lo stesso con i suoi collegamenti con Pechino, Shanghai e Hong Kong. Anche l’indonesiana Lion Air, la più importante compagnia aerea del sud-est asiatico, ha appena deciso di interrompere tutti i voli con la Cina a partire dal 1° febbraio. Una della case automobilistiche più importanti del mondo, la Toyota, qualche giorno fa ha seguito una strada simile e ha interrotto la sua produzione in Cina fino al prossimo 9 febbraio. La catena di caffè americana Starbucks, sempre ieri, ha annunciato la chiusura temporanea di metà dei propri punti vendita in Cina (in tutto sono 4.292 negozi) e pochi giorni prima anche McDonald’s aveva preso la stessa decisione. Il 28 gennaio anche Apple ha fatto sapere di aver chiuso uno dei negozi in Cina e di aver ridotto l’orario degli altri store e lo stesso hanno fatto lo Shanghai Disney Resort e l’InterContinental Hotels Group che hanno annunciato pochi giorni fa di aver temporaneamente chiuso i battenti.

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La drammatica storia dell’epidemia veicolata dal nuovo coronavirus contiene al suo interno due storie diverse – ma simmetriche – che hanno a che fare con due virus solo apparentemente scollegati l’uno dall’altro. Il primo virus è quello che si vede, è quello di cui si parla ed è quello che in Cina ha colpito quasi 6 mila persone generando complicazioni che hanno causato almeno 132 decessi. Il secondo virus è invece quello che non si vede, è quello che non si sente ma è quello che riguarda un’influenza particolare che non ha a che fare direttamente con la nostra salute ma direttamente con la democrazia – e con la lista delle notizie che vi abbiamo proposto all’inizio del nostro articolo. Il secondo virus di cui stiamo parlando riguarda una malattia con cui la Cina dovrà confrontarsi anche quando il coronavirus verrà governato e quella malattia coincide con una parola che in inglese si scrive “trust” e che in italiano si traduce “fiducia”.

 

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“Quando si scopre di avere una malattia pericolosa – ha sintetizzato bene sul Washington Post Leana S. Wen, professoressa ospite presso la Milken Institute School of Public Health della George Washington University – bisogna potersi fidare del proprio medico. Ma quando intere popolazioni si trovano ad affrontare una pericolosa crisi di salute pubblica devono potersi fidare prima di tutto dei loro governi”.

 

Su questo fronte la Cina ha fatto passi in avanti rispetto agli anni della Sars e come ha notato Lancet, una delle riviste mediche più importanti del mondo, “le autorità hanno iniziato persino a rispettare gli standard internazionali isolando i casi sospetti, collaborando con l’Oms, sviluppando procedure diagnostiche e terapeutiche e attuando campagne di educazione pubblica”. La Cina, come si è visto, ha mostrato con orgoglio in queste ore la sua incredibile capacità di mobilitare forze e risorse per rispondere con l’efficienza a una possibile crisi sanitaria internazionale. Lo ha fatto mettendo in quarantena 17 grandi città da milioni e milioni di abitanti e lo ha fatto annunciando che alcune città per rispondere all’emergenza costruiranno ospedali dedicati al coronavirus in soli sei giorni.

 

Una buona risposta da parte dei medici e dei professionisti della sanità pubblica è dunque già iniziata. Ma ciò che la classe dirigente cinese sta probabilmente scoprendo in queste ore è che di fronte a una crisi che colpisce la vita delle persone serve qualcosa di più rispetto alla semplice ostentazione dell’efficienza. Serve, per esempio, dimostrare di essere pronti a fare qualsiasi cosa per considerare la salute dei cittadini più importante degli interessi del potere. Serve, per esempio, avere la certezza che le proprie azioni non siano infettate da una malattia forse persino più pericolosa del coronavirus: quella, appunto, della sfiducia.

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Richard McGregor, senior fellow al Lowy Institute di Sydney e autore di un bestseller sulla vita del presidente cinese (“Xi Jinping: The Backlash”), in un’intervista rilasciata due giorni fa al New York Times ha ricordato che di fronte a un’emergenza sanitaria pubblica ciò che conta non è solo la bravura dei medici ma è anche la gestione dell’emergenza da parte di un governo e la sua capacità non solo di rassicurare ma anche di generare fiducia rispetto alla credibilità delle informazioni diffuse. Il tema della fiducia, ovviamente, non riguarda solo la Cina ma è un tema che riguarda tutto il mondo e che tocca ovviamente anche paesi governati da sistemi liberi, plurali e democratici – in alcuni dei quali le teorie degli esperti arrivano persino a essere messe in discussione da alcuni simpaticoni che vorrebbero far valere la dottrina dell’uno vale uno anche in campo scientifico.

 

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Per quanto però i sistemi democratici possano a volte apparire più fragili e persino più vulnerabili e persino meno credibili rispetto ai sistemi non democratici, è in casi come quelli legati al coronavirus in cui le dittature mostrano forse il loro lato più debole. Limitare la libertà può forse portare più efficienza ma limitare la libertà – a partire per esempio da quella di stampa – significa creare le condizioni per rendere i regimi più vulnerabili sul lato della credibilità. Un paese in cui la libertà di stampa non esiste, come la Cina, in cui le informazioni vengono bloccate, in cui il regime contribuisce a insabbiare le notizie, in cui i diritti umani vengono violati e in cui i dissidenti possono fare una brutta fine, è un paese che non ha a disposizione entità e autorità indipendenti, per non dire trasparenti, che possano essere ritenute affidabili nella diffusione delle informazioni. E dunque, come si fa a credere a quello che dice la Cina? 

 

La grave crisi di fiducia che la Cina sta patendo sul terreno del coronavirus (“Il virus è un demonio – ha detto il presidente cinese, Xi Jinping – e non possiamo lasciare che il demonio si nasconda”) se ci si pensa bene è una crisi speculare all’altra grave crisi di fiducia che il paese sta vivendo sul terreno dell’infrastruttura tecnologica. E su questo campo persino un paese come l’Italia, che è arrivato a sottoscrivere un memorandum di intesa con la Cina, è stato costretto a mettere nero su bianco giusto poche settimane fa un duro monito del suo Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica su questo tema, suggerendo al governo di valutare l’esclusione delle aziende cinesi dalla realizzazione delle reti 5G, ritenendo “fondate le preoccupazioni circa l’ingresso delle aziende cinesi nelle attività di installazione, configurazione e mantenimento delle infrastrutture delle reti 5G” e invitando il legislatore a “valutare anche l’ipotesi, ove necessario per tutelare la sicurezza nazionale, di escludere le predette aziende dalla attività di fornitura di tecnologia per le reti 5G”.

 

La crisi di fiducia patita oggi dalla Cina non ha forse eguali nella storia recente del paese ma se la Cina un giorno si ritroverà costretta a fare i conti con il deficit di credibilità generato dalla sua chiusura e dal suo regime illiberale lo farà anche perché in un mondo magnificamente globalizzato – vedi Starbucks, vedi Apple, vedi British Airways, vedi McDonald’s – se giochi con la fiducia prima o poi ne pagherai il conto. Un vaccino per prevenire il coronavirus prima o poi forse si troverà. Ma il vaccino per combattere i regimi illiberali esiste già e si chiama proprio così: si chiama libertà, si chiama apertura, si chiama globalizzazione.

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