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Con Johnson la Brexit potrebbe rivelarsi un passo sghembo verso altre globalizzazioni

Giuliano Ferrara

Paradossi storici. Un’uscita, anche senza accordo, è meglio percepita di un'espropriazione dell’economia britannica, e una sfida tra la storia imperiale e l’antistoria socialista è decisa in partenza

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Boris Johnson non è né Trump né un qualsiasi senatore Salvini, e se è per questo non somiglia a nessuno dei sovranisti europei accreditati o screditati che siano, dalla Le Pen a Wilders a Orbán a molti altri. I suoi gesti antiestablishment sono, come le sue bugie, i suoi pasticci privati e pubblici, le sue battute, cose di qualità, la scorrettezza delle persone bene educate, non dei bru bru. La Brexit è cronologicamente all’origine del grande caos, che in quel calderone ha avuto (per dirla con Da Empoli) i suoi più o meno loschi “ingegneri”. Ma la Brexit non è né la chiusura dei porti né il fossato dei coccodrilli al confine con il Messico e nemmeno il declinismo enfatico di uno Zemmour. La Brexit non è nemmeno quel che si è visto, il peggio, durante la campagna per il Leave, per l’uscita, per la famosa ripresa in mano del controllo: una caterva di spudorate enfatizzazioni e bugie. Nasce, come sappiamo, da una lunga e tormentosa querelle tra i conservatori (in particolare, ma non solo loro) sul carattere dell’Unione europea per come si è sviluppata nel tempo: è libero scambio o un superstato? Il Regno Unito era già fuori dall’euro e da altre regole unioniste, e a un certo punto un premier Tory, David Cameron,  che si voleva liberare del fantasma di Churchill, dei “no no no” della Thatcher, e di altri fantasmi nativisti o imperiali (talvolta i due opposti coincidono), ha affidato la soluzione del problema a un referendum nazionale. Il cui risultato, la vittoria del Leave, è al tempo stesso nativista, isolazionista e internazionalista-liberale.

  

Due corrispondenti da Londra di due grandi giornali europei, il Monde e la Frankfurter Allgemeine, hanno scritto libri convergenti per concludere, scrive il loro recensore dell’Economist, che la Gran Bretagna è originale nel senso di “un curioso assemblaggio di pragmatismo e orgoglio, apertura e soddisfazione di sé”. E per questa e altre ragioni scommettono che la Brexit si farà e sarà una liberazione di energie positive per i britannici, lasciando al pragmatismo liberal dell’Economist il compito di ricordare che un paese “non può aspettarsi di tagliare i ponti con il suo mercato più grande e con i suoi più stretti alleati senza pagare un costo in prosperità e influenza”. Appunto giusto, per carità, ma con la glossa che in generale i liberal vanno forte in economia, sociologia e antropologia, meno in storia. E tutta la storia inglese, almeno da Enrico VIII e fino a Dunkerque, sembra una prefazione alla Brexit, un dato obiettivo che anche gli scrittori dell’Economist in fondo riconoscono.

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Boris Johnson non era un conservatore euroscettico per definizione, e ha abbracciato il Leave subito dopo aver sostenuto il Remain, notoriamente. È legato a quel sentimento di affermazione di una “superiorità senza sforzo” sugli altri che è tipico dell’aristocrazia o dell’establishment inglese, una caratteristica fatale e stravagante, nel bene e nel male se vogliamo, che spesso coincide con l’amor proprio, motore decisivo di ogni avventura politica. Voleva il potere, e l’ha avuto. Ora, con il consenso di una piccola constituency di iscritti al partito Tory, è diventato premier, ha perso tutte le battaglie contro il Parlamento incerto e combattivo (compresa la maggioranza), contro le corti, ma resta fermo a Downing Street e affronta una scommessa che ha il sapore del win-win (prima o poi, più prima che poi, le elezioni si faranno, non c’è maggioranza e non ci sono maggioranze di ricambio): o si fa l’accordo, e allora vince come architetto di un’uscita compatibile, oppure non si fa, e allora vince lo stesso, come decisionista che ha messo fine a un incubo, contro un uomo come Corbyn, sfiancato dal suo ideale e minaccioso socialismo di ritorno.

  

Poi può succedere di tutto, perché tornare indietro nel mondo contemporaneo è un’impresa a rischio (vedi il discorso di Raphaël Enthoven alla convenzione marionista a Parigi); ma il calcolo dice che un’uscita, anche senza accordo, è comunque meglio percepita di una espropriazione alla carlona dell’economia britannica, e una sfida tra la storia nazionale e imperiale (compresi traumi e rinunce, il famoso “lacrime sudore e sangue”) e l’antistoria socialista è decisa in partenza. Con BoJo la Brexit modello Singapore non sarà, se e quando sarà, una liberazione, ma certo potrebbe rivelarsi un passo sghembo, inusuale, verso un rilancio della globalizzazione. Paradossi.

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