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L’Europa si commuove per le proteste ad Hong Kong, ma che fa?

Giulia Pompili

In molti paesi europei, tra cui l'Italia, si estrada già da tempo nella pericolosa Cina

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Roma. I ragazzi di Hong Kong, che hanno vinto – per ora – la battaglia contro una controversa modifica sulla legge sull’estradizione, hanno fatto tornare sempre più attuale la discussione sul sistema giuridico di Pechino e su quanto, nel trattare con la Cina, bisogna fare i conti anche con quello. Se il governo locale dell’ex colonia inglese ha dovuto fare un passo indietro e rimandare a data da destinarsi la discussione dell’emendamento, davanti alla mobilitazione di milioni di cittadini che vedevano la loro autonomia sempre più erosa di fronte alle richieste del governo centrale, qualcuno ha iniziato a mettere sotto esame la giustizia cinese. Il sistema penale cinese infatti risponde direttamente al Partito comunista che governa la Cina, e la separazione tra giustizia e politica – uno dei princìpi fondativi dello stato di diritto occidentale – è una linea sottilissima, che potenzialmente mette in pericolo non solo i cittadini cinesi ma chiunque abbia a che fare con la Cina. La scorsa settimana Maja Kocijancic, portavoce del capo della diplomazia europea Federica Mogherini, ha detto in una dichiarazione ufficiale che “l’Ue condivide molte delle preoccupazioni sollevate dai cittadini di Hong Kong” sulla riforma dell’estradizione: “Si tratta di una questione delicata, con conseguenze potenzialmente di vasta portata per Hong Kong e la sua popolazione, per i cittadini dell’Ue e stranieri, nonché per la fiducia delle imprese a Hong Kong”. Ma se l’Europa esprime preoccupazioni – poi censurate dall’omologo del ministero degli Esteri di Pechino, Geng Shuang (“Nessun paese, nessuna organizzazione, nessun individuo ha il diritto di fare ingerenze”) i singoli stati europei già da qualche anno – da quando cioè gli scambi commerciali con la Cina si sono intensificati e il business con il Dragone è diventato fondamentale per l’economia – hanno approvato leggi del tutto simili a quella in discussione a Hong Kong. Non è corretto, infatti, quanto ha scritto domenica scorsa in un editoriale in prima pagina sulla Stampa il direttore Maurizio Molinari, che forse auspicava: “Nessun paese democratico ha un trattato di estradizione con Pechino perché il suo sistema della giustizia si distingue per violazioni sistematiche dei diritti umani, gestione diretta da parte della polizia e un’agghiacciante sequenza di condanne a morte”.

   

Uno dei primi paesi europei a ratificare un trattato di estradizione con Pechino è stata la Spagna, quasi dieci anni fa. E da allora molte polemiche si susseguono periodicamente, per l’uso disinvolto delle richieste da parte di Pechino. Per esempio, il 6 giugno scorso la Spagna ha estradato in Cina 94 cittadini taiwanesi accusati di frode telefonica. La Cina rivendica la territorialità di Taiwan, e l’Europa segue il principio della “One China Policy”, quindi tecnicamente non riconosce Taiwan come uno stato indipendente ed è per questo che i sospettati non possono essere mandati a Taipei. Secondo i dati del ministero della Pubblica sicurezza cinese la Spagna ha finora estradato 225 sospettati in Cina, di cui 218 taiwanesi. Come scrivono Donato Vozza e Zhang Lei sulla rivista Diritto penale contemporaneo, “il trattato tra Cina e Spagna non è il primo firmato con un paese europeo”, perché già diversi accordi sono stati firmati “con alcuni stati europei durante gli anni Novanta”, e ci sono la Bielorussia, la Russia, la Bulgaria e la Romania. Poi, dopo la Spagna, si sono aggiunti “la Francia, il Portogallo, l’Australia e, di recente, l’Italia. La firma di questi accordi che, in una prima fase, sono stati, tra l’altro, tenuti nascosti alla stampa nei loro integrali contenuti, è stata fortemente criticata dalle organizzazioni umanitarie”.

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In Italia il trattato è stato firmato nel 2010 e poi ratificato nel 2015, nella pressoché totale approvazione da parte delle forze politiche in Parlamento. Secondo i dati dell’Ufficio II della Giustizia penale – quello che si occupa di cooperazione internazionale – dall’entrata in vigore del trattato “risulta un’unica consegna, che ha riguardato una cittadina cinese alla quale era imputato di aver commesso una grave truffa ai danni di un banca”. Durante la discussione in Aula, quattro anni fa, più volte è stato fatto riferimento ai pericoli che si celano nel sistema giudiziario cinese, perfino dai Cinque stelle, oggi principali sponsor dell’amicizia Italia-Cina. Il testo italiano è quello che si presta meno a interpretazioni funzionali (politiche?) e ci sono delle circostanze che ci dicono quando l’estradizione non si può fare. Per esempio, “se il reato per il quale è richiesta è un reato politico”, e se lo stato a cui viene richiesta l’estradizione “ha fondati motivi di ritenere” che la persona sarà perseguita o punita “per motivi attinenti alla sua razza, sesso, religione, nazionalità o opinione politica”. Pensiamo agli uiguri, accusati di terrorismo da parte del governo di Pechino, internati nei “campi di rieducazione” anche senza alcuna indagine preliminare solo per il fatto di appartenere a una minoranza musulmana. Qualche giorno fa Foreign Policy ha tirato fuori il caso di una famiglia uigura che si era rifugiata nell’ambasciata belga di Pechino in attesa dei visti per il ricongiungimento familiare, visto che il padre un anno fa aveva ottenuto l’asilo in Belgio. Ma i funzionari dell’ambasciata belga hanno chiamato la polizia cinese perché non volevano che aspettassero all’interno delle mura della sede diplomatica, e da allora il padre non ha più notizie della sua famiglia. Questo caso dimostra che una legge sull’estradizione, se trattata come semplice burocrazia, finisce spesso per contraddire i valori che vorremmo difendere.

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