Un bombardamento colpisce Wadi Rabie, trenta chilometri a sud di Tripoli (foto LaPresse)

Trump ci sta contro in Libia

Daniele Raineri

Il presidente americano scommette con i suoi alleati del Golfo sul generale Haftar e sulla presa di Tripoli. Tanto gli effetti di una guerra civile li pagherebbe l’Italia

Non abbiamo ancora realizzato la potenza del calcio che il presidente americano Donald Trump ha dato al governo italiano sulla questione Libia. Lunedì 15 aprile Trump ha fatto una telefonata di sostegno al generale Khalifa Haftar, che comanda le forze di Bengasi e che il 4 aprile ha dato l’ordine di conquistare la capitale della Libia, Tripoli, controllata dal rivale Fayez al Serraj. Nel riassunto della telefonata diffuso dalla Casa Bianca si legge che il presidente americano ha chiamato l’altro americano (Haftar ha vissuto per vent’anni in Virginia, ha il passaporto americano oltre a quello libico) per discutere “the ongoing counterterrorism efforts”. L’operazione antiterrorismo in corso. Ma l’operazione antiterrorismo in corso è l’assalto contro quello stesso governo di Tripoli che l’Italia sponsorizza da tre anni. Quando l’anno scorso è nato il governo gialloverde, il primo viaggio all’estero del ministro Matteo Salvini fu un volo a Tripoli per assicurare il governo libico di Serraj che ci sarebbe stata continuità di linea politica. Come vi avevano sostenuto i governi precedenti, era il messaggio di Salvini, così vi sosteniamo noi perché abbiamo interessi in comune che vanno dall’energia alla sicurezza al controllo della costa da dove partono i barconi.

 

Forse “my friend Giusepi” non sapeva, quando mercoledì parlava con Trump, che lunedì Trump e Haftar si erano già sentiti

Il generale Haftar spesso definisce tutti i suoi nemici “terroristi” perché è conveniente quando si fa propaganda di guerra. Durante la battaglia per liberare Bengasi – che è durata tre anni – aveva davanti per davvero alcuni gruppi di terroristi, incluso lo Stato islamico. A Tripoli invece no: vuole cacciare dalla capitale un governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, che partecipa alle conferenze di pace e che lui stesso ha incontrato in molte occasioni, e lo vuole cacciare soltanto perché punta a essere l’uomo forte che comanderà in Libia. Nel momento in cui anche il presidente degli Stati Uniti aderisce in una nota ufficiale all’idea che il generale Haftar in queste settimane è impegnato in un’operazione contro “il terrorismo” allora cosa dobbiamo pensare – che l’Italia sponsorizza dal 2016 un governo di terroristi, che peraltro invita con regolarità a Roma? Che è stato il primo paese a riaprire un’ambasciata a Tripoli grazie a un accordo diplomatico con i “terroristi”? La nota ufficiale della Casa Bianca con il riassunto della telefonata fra Trump e Haftar prosegue: “The two discussed a shared vision for Libya’s transition to a stable, democratic political system”. I due hanno parlato di una visione condivisa per la transizione della Libia verso un sistema democratico e stabile. Ma Haftar il futuro della Libia lo vede così: vittoria contro i nemici di Tripoli, Serraj sotto arresto – ha già dato l’ordine – e lui come unico leader. In un’intervista a La Jeune Afrique nel febbraio 2018 aveva già detto che per la democrazia in Libia è ancora presto.

 

 

Questo voltafaccia americano è ancora più doloroso se si considera che Trump è un mito del governo gialloverde. Salvini e Di Maio competono per accreditarsi alla Casa Bianca e sognano una foto con il presidente icona dei populisti (Salvini ne ha già una, ma fu scattata al volo come se lui fosse un fan qualsiasi e non è ufficiale) e il premier Conte è stato definito dai giornali americani “the Italian cheerleader of Trump”. My friend Giusepi, come lo chiamò Trump durante l’incontro del luglio 2018 alla Casa Bianca in cui il presidente americano delegò all’Italia la gestione del dossier Libia. Fu un’investitura importante, per qualche attimo sembrò che l’Italia grazie all’appoggio americano potesse essere il protagonista principale fra tutti i governi stranieri che si occupano di Tripoli, dalla Francia al Qatar alla Turchia all’Arabia Saudita. Non sarebbe stata una scelta cattiva, dopotutto siamo quelli che hanno molto da guadagnare da una Libia stabile e siamo anche quelli che tutti i giorni prestano le basi ai ricognitori e ai droni americani che sorvolano il paese africano. Ma quell’investitura è già stata dimenticata. Mercoledì 17 aprile Conte ha telefonato a Trump per sollecitare una dichiarazione americana di altissimo livello che mettesse fine alla guerra civile e che indirizzasse tutti “verso una soluzione politica”, e due giorni dopo è venuta fuori la notizia della telefonata fra Trump e Haftar del 15 aprile. Il che fa sospettare che my friend Giusepi fosse all’oscuro, mentre di mercoledì parlava con Trump, che lunedì Trump e Haftar si erano già sentiti e che il presidente americano aveva detto al generale di avere la stessa “shared vision” per il futuro.

 

Trump potrebbe avere deciso di imporre un uomo forte come estensione geografica e ideologica di altri uomini forti che già favorisce

L’11 aprile, quando giravano voci mai confermate di militari – anzi, di “mercenari”, chissà perché – francesi schierati in combattimento con Haftar, Salvini ha dichiarato che l’appoggio di Macron al generale libico sarebbe “un fatto gravissimo”. E poi la minaccia: “Non starò a guardare”. Poi però è uscita la notizia spiazzante della telefonata fra Trump e Haftar e non ci sono più state dichiarazioni da parte del leader leghista.

 

Da anni il governo italiano cercava di portare le due metà della Libia – da una parte Serraj a Tripoli e dall’altra Haftar a Bengasi – in una stessa stanza per negoziare la riunificazione pacifica del paese. L’idea di fondo è che presto o tardi i due dovrebbero mettere da parte le ostilità, spartirsi i posti di potere e i soldi del petrolio in quote più o meno soddisfacenti per entrambi e cominciare a lavorare sulla stabilità. Soprattutto, l’idea di fondo era che Serraj e Haftar avrebbero dovuto a tutti i costi evitare una guerra civile, perché nessuna delle due parti è abbastanza forte da prevalere in fretta sull’altra e quindi si sa come finisce in questi casi: combattimenti prolungati, città distrutte, milizie, atrocità, profughi in fuga verso l’Europa, terroristi liberi di fare quello che vogliono. Un disastro.

 

 

  

Per evitare questo disastro a novembre il premier Giuseppe Conte invita Trump, Putin e altri capi di stato a una conferenza di pace a Palermo per spingere i due leader libici verso una svolta, ma i grandi capi di stato non si presentano intuendo che l’incontro sarà un flop. Haftar arriva in ritardo, fa sapere che lui è fisicamente lì ma che non partecipa alla conferenza e poi si lascia fotografare assieme a Conte e Serraj come una rockstar che concede un contentino. Il premier italiano annuncia che il 2019 per la Libia sarà “l’anno della svolta” – e quello che succede in questi giorni dimostra che si trattava come già successo anche in altri settori di un’esibizione molto avventata di ottimismo.

 

Haftar vede il futuro così: vittoria contro i nemici di Tripoli, Serraj in arresto – ha già dato l’ordine – e lui come unico leader

Conte e Trump si sono di nuovo sentiti al telefono questa settimana. Secondo fonti del Foglio, Conte ha chiesto a Trump di ordinare al generale Haftar e alle sue forze (indicate con il nome pretestuoso di esercito nazionale libico) di togliere l’assedio a Tripoli e di ritirarsi a novanta chilometri dalla capitale, per poi fare ripartire la diplomazia. Ma Conte arriva tardi. Le forze anti Haftar hanno già rigettato quelle del generale indietro, hanno ripreso Azizia, hanno spinto il fronte dei combattimenti a sessanta chilometri da Tripoli. Mancano soltanto venticinque chilometri per riprendere anche Gharian, che è l’avamposto sulle montagne Nafusi dove Haftar ha piazzato il comando che dirige l’assalto a Tripoli. Reuters, che c’è appena stata, racconta di mezzi bruciati, di un paio di carri armati catturati e dei corpi di cinque miliziani dell’“Esercito nazionale libico” lasciati per strada. Le forze di Haftar attaccano Tripoli anche da altre direzioni, ma quello era l’asse principale dell’offensiva. Il generale di Bengasi voleva copiare la stessa azione che nel 2011 consentì ai ribelli di cacciare Gheddafi dalla capitale: scendere di colpo dai monti, coprire il più in fretta possibile la distanza allo scoperto e infilarsi nei quartieri – da dove poi è molto difficile farsi sloggiare – prima che il nemico abbia il tempo di mobilitare le sue forze militari. Questa volta non si trattava di cacciare un uomo forte da Tripoli, ma di riportarcelo. Il blitz non è riuscito. Non si capisce se la richiesta di Conte includa anche l’abbandono di Gharian oppure no. Se Haftar resta lì, sul collo di Serraj, sarà difficile che si arrivi a una tregua e infatti le forze anti Haftar parlano di ricacciare il generale fino a Bengasi, tanto per stare tranquilli. E’ ancora tutto troppo fluido per dare retta all’una oppure all’altra parte. Certo che la richiesta di una ripartenza dei negoziati, dopo trecento morti e dopo che Serraj e Haftar hanno entrambi ordinato l’arresto dell’altro, a questo punto suona irreale.

 

All’Italia resta da sperare che la telefonata di Trump con Haftar appartenga alla categorie delle posizioni incompiute del presidente americano – come tante altre cose. Il ritiro dei duemila soldati americani dalla Siria che doveva finire entro gennaio non è ancora cominciato, sebbene Trump lo avesse molto pubblicizzato. Il segretario di stato, Mike Pompeo, aveva condannato l’avanzata di Haftar verso Tripoli, prima di essere sconfessato dal suo presidente. Il senatore repubblicano Lindsey Graham, che è il consigliere non ufficiale di Trump per la politica estera e che tanto si è speso per annullare o almeno rallentare il ritiro dalla Siria ancora infestata dallo Stato islamico, ha chiamato Trump per cercare di correggere la rotta. “Dobbiamo rinforzare il messaggio che non possiamo parteggiare per l’uno o per l’altro gruppo e che respingiamo l’uso della forza militare come soluzione ai problemi libici”, ha detto. “Per me è impossibile che Haftar o chiunque altro diventi un leader legittimo con l’uso della forza. E’ impossibile che riesca a controllare Tripoli e il paese se prenderà la capitale con la forza. Ci sarà un’ondata di profughi in caso di escalation della guerra, sarà un incubo per la Tunisia e per tutta la regione”.

 

Il consigliere di Trump: “Dobbiamo rafforzare il messaggio che non possiamo parteggiare per l’uno o per l’altro gruppo”

Contro questa posizione che è anche la posizione italiana c’è l’istinto di Trump a schierarsi di default con l’uomo forte, che in questo caso è il generale Haftar (anche se a Tripoli, visto il fallimento per ora della campagna militare, c’è chi lo chiama con sarcasmo: l’uomo debole della Libia). Alle spalle di Haftar c’è l’Arabia saudita del principe ereditario Mohammed bin Salman e si sa che Trump lo considera un alleato preziosissimo da proteggere anche a costo di far infuriare il Partito repubblicano. E’ stato Trump a scrivere la nota della Casa Bianca dopo l’omicidio scandaloso del giornalista Jamal Khashoggi in cui si sostiene che l’America non abbandona il principe – anche se la Cia lo considera il mandante. Inoltre ci sono anche gli Emirati arabi uniti del principe Mohammed bin Zayed, che con Trump va molto d’accordo. Non si starà qui a ripercorrere la storia dell’alleanza molto discreta ma anche molto solida fra gli Emirati e il clan Trump, basti sapere che funziona e che secondo fonti diplomatiche il genero Jared Kushner non chatterebbe via Whatsapp soltanto con il principe Bin Salman ma anche con l’emiro Bin Zayed. E c’è anche il presidente egiziano Abdul Fattah al Sisi, che potrebbe restare in carica al Cairo fino al 2030. E la Russia del presidente Vladimir Putin. In breve, Trump sulla Libia potrebbe avere deciso che è naturale imporre un uomo forte come estensione geografica e ideologica della sequenza di altri uomini forti che già favorisce nella stessa regione. Il problema è che se fallisce questa scommessa e Haftar s’impantana in una guerra civile – dopotutto ci ha messo tre anni per prendere Bengasi, che è più piccola e il nemico non aveva aerei – le conseguenze investono l’Italia, e non l’America o l’Arabia saudita oppure gli Emirati, che sono lontani. Se nello scenario peggiore cominciassero bombardamenti pesanti su Tripoli, prima o poi gli abitanti scapperebbero verso la Tunisia e verso l’Italia. E, come Salvini sa perfettamente, non si può chiudere la porta in faccia a profughi di guerra – il diritto internazionale dice che devono essere accolti. Sarebbe un bel regalo da parte del sovranista di Washington e dei suoi alleati arabi.

 

Digressione finale sui gruppi estremisti e lo Stato islamico e la necessità di fare presto. Haftar nelle battaglie a Bengasi e a Derna si è fatto molti nemici nell’assortimento di gruppi jihadisti che infesta la Libia, migliaia di uomini che sono pronti a riprendere le armi non per difendere Serraj – di cui non gli importa nulla, potrebbero ucciderlo domani stesso – ma per prendersi una rivincita contro il generale. Nel cosiddetto “Esercito nazionale libico” ci sono molti battaglioni salafiti, ma sono salafiti che pur ossessionati dall’imposizione della sharia credono nell’obbedienza all’uomo forte. I gruppi jihadisti potrebbero presto unirsi alle forze che difendono Tripoli e a quel punto la campagna farlocca “antiterrorismo” di Haftar comincerebbe ad assomigliare a una profezia che si autoavvera. Lo Stato islamico in Libia non ha fatto nulla a gennaio, febbraio e marzo. Ma da quando è cominciata la guerra civile ha già attaccato tre volte le milizie di Haftar nel resto del paese e di fatto si sta infiltrando nella guerra. Se non si fa presto, c’è il rischio che il governo di Tripoli si trovi con dei terribili compagni di fronte – e quindi che pur restando forte dal punto di vista militare diventi debolissimo dal punto di vista politico.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)