I volti dei conservatori Michael Gove, Boris Johnson e Theresa May (Foto LaPresse)

La Brexit vista da un superreporter

Cristina Marconi

Westminster approverà l'accordo della May e poi arriverà un nuovo premier (tory). Matt Chorley, autore della rubrica Red Box sul Times, tra un anno si vede così 

Londra. Ma no che non ci sarà la “hard Brexit”, Theresa May mica vuole finire nei libri di storia per un disastro ancora più grave di quello combinato dal suo predecessore a Downing Street, David Cameron. Lo dicono la pancia e l’istinto di Matt Chorley, giornalista politico tra i più influenti del Regno Unito, autore di quella rubrica sul The Times, Red Box, che tutti leggono al mattino ancora prima di mettere i piedi sui soffici carpets delle loro camere da letto londinesi. May “gioca con l’orologio e aspetta l’ultimo minuto”, che a Londra si chiama “undicesima ora” e che rappresenta l’ultimo strumento nelle mani di una premier politicamente morta, derelitta, attaccata al potere nonostante i ceffoni degli ultimi tempi “perché a tutti piace poter alzare la cornetta e chiamare i grandi della terra, essere riveriti da un nugolo di collaboratori”, divertirsi come matti e, come tutti i politici, “pensare di essere molto meglio degli altri politici”.

 

Nel grande giorno della marmotta che sta andando avanti da mesi, la May ieri in Parlamento ha chiesto ai deputati di “tenere i nervi saldi” mentre lei cerca di ottenere “cambiamenti legalmente vincolanti alla clausola di salvaguardia” sull’Irlanda e ha illustrato tre modi: dar seguito alla fumosa indicazione di Westminster di adottare “soluzioni alternative”, ottenere “un limite di tempo” o avere “una clausola di uscita unilaterale e legalmente vincolante” per dare finalmente ai brexiteers quello che vogliono per votare il benedetto accordo messo sul tavolo. Basterà? “Potrebbe revocare l’articolo 50, ma poi dovrebbe andarsene via, mentre quello che le serve è creare una situazione di crisi e giocarsela, visto che fino a ora non ha fatto altro che aspettare che succedesse qualcosa”.

Intanto, dopo la “mozione emendabile” di giovedì, il prossimo voto è previsto per il 27 febbraio e neppure arrivare a marzo è più un tabù. Per Chorley, viso da bambino e cravatta blu a fiori che pare ritagliata in una carta da parati vittoriana, “qualcosa di simile all’accordo verrà approvato”, i falchi come Jacob Rees-Mogg verranno relegati in uno spazio contenuto di stravaganze politiche, e ci si potrà finalmente dedicare alla prossima battaglia, quella sulle relazioni future, per stabilire se il Regno Unito diventerà Singapore o Oslo. “Boris Johnson resterà nell’aria, ma come leader non ha chances, non ha le liste, non ha i nomi, solo gente che ce l’ha a morte con lui nel partito”, mentre uno come Michael Gove o addirittura una come Andrea Leadsom, “una brexiter diventata realista con il tempo”, chissà...

Il giornalista Matt Chorley, autore della rubrica Red Box sul Times 


 

La May ieri non ha teso la mano a sinistra sulla sua idea di Brexit – niente unione doganale, per carità – ma ha ribadito a lungo i temi cari al Labour della protezione dei lavoratori e delle altre cose belle che l’Europa porta e che, anche sull’isola spaccata, tocca riconoscere. “Per Jeremy Corbyn fino a ora ha funzionato essere ambigui, ma adesso la sua linea mostra la corda, e poi si può pure essere ambigui e capire i dettagli, cosa che lui non fa”, racconta Chorley, maestro di lettura delle sfere di cristallo della politica, convinto che tra un anno il paese sarà nel suo periodo di transizione, con un nuovo leader conservatore e con gli stessi partiti di adesso, che sono due ma sembrano quattro. “Io pensavo che avere una remainer a Downing Street avesse senso, ma col senno di poi ritengo che un brexiteer sarebbe stato meglio, il suo lavoro sarebbe stato di cercare il consenso degli altri” e quindi di ammorbidire i contorni di una situazione che la May, come dice Boris Johnson, “tratta sempre e solo come una condizione meteorologica avversa”.

 

Lei che non sa fare compromessi neanche con se stessa, che ha tagliato i ponti con il passato in un momento in cui bisognava procedere con cautela, usare forze giovani e ancora energiche come George Osborne, è finita. Ma dove sono i fratelli Miliband, dov’è David Cameron, cos’è questa frenesia di privarci di potenziali grandi vecchi, si chiede Chorley, che non nasconde di ammirare Amber Rudd e la laburista Angela Rayner, e pure Yvette Cooper, “salvo poi ricordarsi quanto sia stata indecisa nella campagna per la leadership del Labour”. Il secondo referendum gli mette i brividi, oltre a trovarla un’ipotesi da sempre campata in aria, capace di decollare nell’immaginario collettivo solo grazie a una campagna efficace nel creare un senso di slancio che non è mai esistito. “E se poi si rivotasse Leave che facciamo?”, si chiede Chorley, uno che ha votato remain come tanti giornalisti, non foss’altro che per un motivo: “Lo sapevo che sarebbe successo tutto questo, e non lo volevo”.

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