Male, Maldive (foto di Shazwan via Flickr)

Ma che cavolo dice 'sta Borri? Le Maldive in rivolta contro la “reporter di guerra”

Simonetta Sciandivasci

Dalle recensioni italiane estasiate al debunking degli interessati

Roma. “È ironico che un libro scritto per rovinare l’immagine del nostro paese, abbia finito con l’unirlo”. Si chiude così il pezzo su come e quanto si stiano incazzando i maldiviani per via d’un reportage Einaudi pubblicato nel maggio del 2017 (“Ma quale paradiso? Tra i jihadisti delle Maldive”), appena tradotto in inglese, sul jihadismo a casa loro e, a cornice, su che paese sia il loro e che tipo di persone lo abitino. Un libro, a quanto pare, pieno di inesattezze, ricostruzioni arbitrarie, cliché sensazionalistici e della cui autrice, un anno e mezzo fa, Carlo Rovelli scriveva, sul Corriere della Sera, in una recensione del libro medesimo: Francesca Borri infastidisce molti. In un mondo di frasi fatte e giudizi pronti, lei mette in dubbio”. Ti faceva sentire in colpa se eri stato in vacanza alle Maldive, o anche solo se avevi desiderato di andarci, perché (da un’altra entusiastica recensione italiana) “Sono il paese con il più alto numero pro capite di foreign fighters”.

  

Borri, nella sua biografia sul Fatto Quotidiano, dice di sé: “In quello che scrivo, in genere, qualcosa esplode, qualcuno muore”; “Le mie storie sono a km zero, cioè raccontate non con un copia&incolla da internet, con telefonate, voci, pezzi di altri, ma toccate con mano, fango alle caviglie: storia raccontate dalle vene del mondo”. Stavolta non è morto nessuno, però è esploso il debunking: su Twitter da giorni i maldiviani recapitano smentite alla “giornalista di guerra, freelance, cioè indipendente” (freelance non è un attributo etico: significa non assunto, probabile partita iva).

  

Ha scritto Borri che i mussulmani maldiviani pensano che i jihadisti siano eroi, non come i mussulmani che ha incontrato lei a Parigi, a Bruxelles, in Tunisia, tutti uniti in una ferma condanna del terrorismo islamico. Ha scritto che i maldiviani sussultavano quando lei tirava fuori il suo iPhone come se non avessero mai visto un telefono, e invece dai dati della Banca Mondiale risulta che alle Maldive ci sono più abbonamenti telefonici che in Italia. Ha scritto che non esiste una cucina locale maldiviana, e non è vero. Che a Male, la capitale, non ci sono librerie, tranne una (islamica), e non è vero.

 

Su Facebook, nel maggio del 2017, Borri raccontò che Yameen Rasheed, un blogger maldiviano, era stato assassinato poco dopo averla incontrata e aver parlato con lei di come il paese fosse di fatto governato dalla sharia: concludeva che era una coincidenza sospetta, e che lei era pronta a morire, essendo una reporter di guerra, ma non a veder morire qualcuno al posto suo, e aggiungeva che dopo la pubblicazione del suo libro, la sola cosa che gli chiedevano i lettori italiani era se si potesse comunque andare in vacanza laggiù. È stata messa in discussione pure questa storia (il ragazzo è stato ucciso, ma non per intimidire lei). Centinaia di tweet non fanno una prova e neanche una smentita, ma è interessante che in Italia un libro su un paese che conosciamo superficialmente sia stato tanto osannato e quando è finito nelle mani di chi in quel paese ci vive, sia venuto fuori che è pieno di frottole. Non ci fidiamo dei vaccini, della politica, della giustizia, della scuola, dei giornali, ma alla retorica del fango alle caviglie abbocchiamo ancora, è il solo esorcismo cui siamo disposti a sottoporci per liberarci del nostro senso di colpa per aver scelto il divano.

   

Ed è, quella retorica, l’appiglio migliore per accusare i giornalisti di non essere al fronte, dove vorremmo fossero tutti, forse per levarceli dalle palle, e “nelle vene del mondo”, come se vivessimo nelle unghie, dove tutto è manicure e salotto.